Sul sito di Darsi Pace (www.darsipace.it) è stata pubblicata la registrazione dell’incontro che ho tenuto a Forlì il 20 ottobre con Antonietta Valentini. Vedere e pensare salute e malattia in modo nuovo e oltre la superficialità è una grande sfida, ma si può fare!
Domenica 20 ottobre 2019 ho tenuto, insieme ad Antonietta Valentini, questo incontro presso il “Centro per la Pace Annalena Tonelli” di Forlì.
L’evento è stato organizzato dal gruppo di creatività culturale DarsiSalute che fa capo al movimento Darsi Pace (www.darsipace.it).
In questa conversazione abbiamo avuto modo di affrontare i temi della salute, del benessere, della malattia e della cura in modo un po’ più ampio di quanto si fa solitamente, includendo aspetti come la spiritualità e le connessioni tra le varie aree coinvolte della persona.
L’impressione che ho avuto da questo evento è che sia stato davvero un incontro. Prima di tutto con la carissima Antonietta Valentini, con la quale ho sentito una forte sintonia e un senso di reciproco completamento nel dialogo che si è creato. Poi l’incontro con il pubblico, che silenziosamente, ma attentamente, ha seguito il racconto, l’esposizione e la pratica meditativa dimostrandolo con la numerosa partecipazione e il coinvolgente affetto espresso al termine della serata. Mi sento molto grato per questa possibilità e per l’esito che ha avuto!
Prossimamente sarà disponibile la registrazione dell’incontro.
Video tratto dal primo incontro 2019-2020 del progetto Obiettivo Benessere Globale, laboratorio di crescita personale con pratiche meditative e corporee condotto dal dott. Pier Luigi Masini.
Video tratto dal primo incontro 2019-2020 di Obiettivo Benessere Globale
Alcuni argomenti trattati: 1) Il periodo storico che viviamo richiede di lasciare vecchi modelli e intraprendere strade nuove. 2) Il modo in cui viviamo (stile di vita) e pensiamo influenza notevolmente la nostra salute e influisce sulla maggior parte delle malattie. Perché ci ammaliamo? 3) Ansia e depressione sono il flagello dell’umanità moderna. Quali possono essere le cause? 4) E’ necessario un cambio di prospettiva per iniziare ad evolvere la nostra coscienza in senso globale. 5) Proposta esperienziale di lavoro su di sé a partire dal corpo e dalla nostra consapevolezza attraverso pratiche meditative e corporee.
Incontro tenutosi a Villa Verucchio (Rimini) il 26/09/2019.
La ricerca interiore può avere effetti sulla salute? Si tratta di una domanda che molti di noi si pongono quotidianamente.
Credo che la salute sia strettamente correlata a chi siamo e come stiamo interiormente. Per questo non posso fare a meno di pensare che, nella via del benessere (cioè dello “stare bene” in ogni senso), sia necessaria anche una ricerca che vada alle radici della nostra esistenza.
Padre Thomas Keating era un monaco benedettino, grande maestro di meditazione e preghiera contemplativa, morto nel 2018, e in uno dei suoi incontri con il Dalai Lama in cui venivano discussi temi riguardanti la meditazione, la contemplazione e la salute, ha affermato che secondo lui la correlazione è ovvia:
La salute umana è una relazione con la realtà ultima, perché la fonte del nostro essere ci sostiene anche, sempre. Ovviamente, vivere in accordo con la nostra natura interiore genererà salute.
padre Thomas Keating in un dialogo col Dalai Lama (2005). Fonte: La Meditazione come Medicina, Dalai Lama, J. Kabat-Zinn, R. J. Davidson, RCS 2019, pag. 95
La fiducia che “la fonte del nostro essere” ci possa sostenere sempre, cioè non ci abbandoni mai, si può chiamare anche fede.
Gli incontri tra padre Keating e il Dalai Lama ci ricordano che questo concetto appartiene a tutte le forme di credo e pertanto specifica e identificativa della realtà umana.
Quando ce ne dimentichiamo, e ci concentriamo sul nostro “fare” quotidiano, in realtà stiamo dimenticando noi stessi. Allora prima o poi anche il corpo ce lo ricorderà con qualche tipo di dolore o sofferenza. Fermandoci a questo la sensazione sarà di avere, e di essere, un corpo inadeguato e malato.
La salvezza starà nel tonare a noi stessi, all’ascolto e alla ricerca di quella fonte, dimenticando il fare e tornando all’essere, abbandonandosi finalmente alla Vita, a Dio, nel rilassamento interiore che deriva dalla fede.
Solo in Dio riposa l’anima mia: da lui la mia salvezza.
Salmo 62
Esistono diverse modalità per far questo, basate sull’esperienza, sul credo e sulla cultura. E’ ormai evidente che la meditazione è una pratica che predispone in modo efficace a questo atteggiamento.
Personalmente trovo la pratica meditativa un ottimo punto di partenza per la ricerca interiore. Ci permette di rilassarci, non solo rimanendo vigili, ma anche aumentando la nostra consapevolezza del momento attuale e di noi stessi. Durante la pratica si allentano i pensieri e si intraprende un ascolto, che può diventare molto profondo. Il silenzio diventa maestro.
Niente descrive bene Dio come il silenzio.
Meister Eckhart
A quel punto il fare diventa superfluo, e l’essere progressivamente si fa più presente, in un’esperienza di appartenenza a qualcosa di più grande di noi. Il senso di pace si fa reale, la compassione e la serenità che scopriamo in quella dimensione portano spesso a chiedere: “chi sono?”, “cos’è questa coscienza che va oltre il mio corpo?”, “cos’è questo universo, questa vita, questo grande corpo, di cui mi sento parte?”, “da dove viene questa sensazione di essere amato e di amare tutto ciò che fa parte della vita?”, e così via. La ricerca interiore così rinasce da domande che sorgono spontaneamente, in un’esperienza viva del tutto personale.
L’anima si è un pochino liberata e abbiamo allentato i legami con le cose di questo mondo, in un certo senso “impoverendoci”, un po’ come s. Francesco, il poverello di Assisi, che nell’incontro con Dio ha lasciato (lui davvero!) ogni attaccamento alle cose materiali.
Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Vangelo di Matteo 5, 3
La maggior parte di noi, in giovinezza, ha vissuto questi aspetti come concetti calati dall’alto, quindi dai genitori, dal catechismo e dalla pratica religiosa, andando spesso incontro a ribellione e rigetto. Questo probabilmente perché non sentivamo nostre quelle domande, e quindi non potevamo capire le risposte, oppure queste ultime non erano davvero portate ad un livello di vita reale, nemmeno da chi ce le proponeva.
Inoltre abbiamo subito per molti secoli una immagine di Dio alterata, che ha portato a negarlo con forza nella nostra cultura:
“Contro questa immagine oppressiva di un Dio che punisce con crudeltà estrema, di un Dio perverso […] che schiaccia l’uomo , e sta sempre lì nel cielo col dito puntato contro di noi per additare ogni nostro errore e punirlo in modo implacabile […] si è sviluppata in Europa, specialmente negli ultimi due secoli, una ateologia radicale, una profonda negazione di Dio”.
Marco Guzzi, Yoga e preghiera cristiana, ed. Paoline, 2009
Le domande spontanee, che sin da bambini abbiamo posto agli adulti, difficilmente trovavano risposte credibili e concrete, che spesso venivano pure confutate da ciò che si studiava a scuola (ad esempio in storia o in scienze). Mia figlia di 7 anni, per esempio, solo negli ultimi giorni mi ha posto domande come: “perché Dio ci ha creato?”, “chi ha creato Dio?”, “perché moriamo?”. Ovviamente ho cercato di instaurare con lei un dialogo, portando ciò in cui credo, ma allo stesso tempo stimolando la sua curiosità. Quello che mi è sembrato più importante per lei è stato il sentire che io quelle risposte le ho dentro, anche se ammettevo l’enorme mistero che celano. Altro è parlare con il mio figlio maggiore di quasi 12 anni! Per lui è importante ragionare e sentire che può comprendere, che può e deve usare il proprio cuore e la propria mente per raggiungere le vette della profondità interiore. Nel frattempo sa che può contare su di me come colonna sicura sulla quale appoggiarsi, colonna che prima o poi distruggerà per innalzare la propria.
Soprattutto oggi è necessaria un’esperienza molto personale di fede e di ricerca. Lo è sempre stato, ma la nostra epoca ha messo in crisi tutte le religioni e le culture e c’è bisogno di un salto di qualità. Le giovani generazioni, come dice Marco Guzzi, hanno una “radicalità naturale”, che le porta a mettere in discussione qualsiasi concetto per poter andare alla radice delle cose. Aspetto che va sicuramente sostenuto e curato da noi adulti.
Non possiamo quindi più accontentarci di quanto ci viene proposto da voci esterne, anche se la predicazione, la Parola tramandata, e l’annuncio restano pietre fondanti del percorso, senza le quali nessuno sarebbe in grado di raggiungere certi processi, conoscenze, o stati interiori.
Possiamo prenderci cura gli uni degli altri, chi ha più esperienza è guida e aiuto, ma la vera guarigione deve avvenire nel cuore di ognuno, non può essere portata dall’esterno. Si tratta quindi di un percorso che non è fattibile da soli, ma che allo stesso tempo richiede un lavoro personale.
Con la meditazione che diventa anche contemplazione, e se vogliamo preghiera, tutto il nostro essere si predispone alla guarigione. E’ ben dimostrato che praticare la meditazione, la contemplazione e la preghiera, porta a dei benefici psichici e fisici. Ad esempio si riscontra una riduzione dell’ansia e della depressione (entrambe molto diffuse nella popolazione), migliora la tolleranza a ciò che provoca stress, migliorano alcune malattie croniche e sono più efficaci le terapie.
La ricerca interiore è quindi, oltre che un gesto d’amore verso noi stessi e un cammino verso la Verità, un vero e proprio atto di salute.
Per approfondire vedi anche altri articoli di questo sito, ad esempio:
Abbiamo considerato per troppo tempo la salute come antitesi della malattia e ci siamo quindi concentrati sulla distruzione del male, considerandolo come qualcosa che non appartiene alla persona, pensando di ottenere così il bene. Ma la salute non è l’opposto della malattia e questa non è “altro” dalla persona che ne è affetta.
Il positivismo è il paradigma su cui si basa la nostra attuale impostazione medica, esso considera il negativo (la malattia) come qualcosa da eliminare per ottenere il positivo (la salute). Considera quindi il positivo come negazione del negativo. Il concetto assomiglia molto a certe “missioni di pace” militari, in cui per ottenere la pace in una determinata area geografica afflitta dalla guerra, si agisce con armi ancora più potenti ed eserciti ancora più agguerriti. Il risultato è devastante: possiamo dire davvero di aver raggiunto la pace? Era quella la pace che cercavamo?
C’è un forte bisogno di cambio di visuale. La salute deve diventare lo scopo, deve essere perseguita come obiettivo a se stante. Sono necessari interventi a livello culturale perché tutti possano conoscere e mettere in pratica ciò che conosciamo per vivere meglio e in salute.
E quando c’è la malattia? Ovviamente va curata con tutti i mezzi a disposizione. Ma non va mai dimenticato che curare una persona significa andare ben oltre l’agire sulla sua parte malata.
Può bastare qualche piccolo aggiustamento? Direi proprio di no, come afferma il filosofo Luigi Vero Tarca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia in un articolo centrato proprio su questo tema:
“il superamento dell’attuale paradigma scientifico richiede ben più che un piccolo e limitato aggiustamento epistemologico, esso esige piuttosto un riassestamento di tutta la concezione del medico all’interno di un ripensamento radicale dell’esperienza umana nel suo complesso”.
Va quindi ripensato tutto il sistema, che è palesemente in crisi, ma lo diceva già George L. Engel nel 1977 quando proponeva il modello BioPsicoSociale.
Che il sistema sia in crisi lo dimostra il fatto che ricoveriamo spesso nei nostri ospedali persone giovani e potenzialmente sane per gravi problematiche ampiamente prevenibili, come quelle dovute a sovraccarico lavorativo e di stress, ad una alimentazione scorrettissima, all’abuso di sostanze ed alcol, al fumo di sigaretta, e così via. Lo dimostrano i continui ricoveri e dimissioni dei nostri poveri anziani, ogni volta più provati e debilitati, fino alla morte per esaurimento di materia vitale. Lo dimostrano le continue richieste dei malati cronici, delle persone con malattie non ben definite e non riconosciute, mai completamente soddisfatti di ciò che abbiamo loro da dare. Lo dimostrano le stanze asettiche e i pallidi corridoi dei nostri ospedali. Lo dimostrano le lamentele di pazienti che non sono stati ascoltati, compresi ed aiutati in modo completo o corretto.
Se noi medici continuiamo a vedere la persona come una macchina da aggiustare, seppur nei limiti imposti dalla Natura, non facciamo nulla per migliorare questo problema, ma ne tamponiamo solamente gli effetti, probabilmente favorendolo.
C’è bisogno di dare nuovi stimoli alla cultura, alla politica e alla ricerca scientifica e interiore perché possiamo diventare prima di tutto promotori della salute, poi resteremo sempre anche i “riparatori dei guasti”, ma con un’ottica completamente riassettata, pulita, focalizzata e centrata sul bersaglio corretto.
Molti di noi si sentono spesso affaticati oltre il dovuto. Una stanchezza che può essere sia mentale che fisica, anche se il nostro lavoro è soprattutto di tipo intellettuale. Molti di noi non spostano più, come un tempo, carichi pesanti e non fanno chilometri e chilometri a piedi per andare a lavorare. Eppure siamo stanchi, troppo stanchi. Un’epidemia di stanchezza!
La stanchezza cronica è spesso associata a malessere generale, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e memoria, umore depresso, dolori articolari o muscolari, sistema immunitario debole o infiammazione cronica, cefalea, ecc. Le persone affette da questo problema vedono i loro sintomi alternarsi a periodi di miglioramento, ma senza che si verifichi mai una risoluzione completa e duratura. Spesso hanno effettuato già molti accertamenti, i quali si sono verificati nella norma o con risultati non ben correlabili ai loro disturbi.
I motivi di questo affaticamento ritengo siano molteplici. Come ben sa chi mi conosce, credo fermamente che non vi sia distinzione tra corpo, mente e spirito. Ecco perché non si può considerare una stanchezza, fosse anche soprattutto o solamente fisica, solo dal punto di vista organico. Insomma, non ci fermeremo a qualche esame di laboratorio o alla misurazione della pressione arteriosa. Abbiamo bisogno di considerare tutta la nostra esistenza, il nostro modo di relazionarci col quotidiano, col prossimo e con noi stessi.
In una condizione di stanchezza cronica senza causa apparente (quindi senza sintomi specifici ne accertamenti già risolutivi per qualche condizione particolare) si possono prendere in considerazione gli spunti che trovate di seguito, sapendo che nessuno (di solito) è sufficiente e tutti sono connessi tra loro. In ogni caso qui troverete solo indicazioni generali, che non possono sostituire la visita e il consulto medico, dai quali pervengono altre informazioni che qui non è possibile descrivere.
Non è ovviamente possibile essere esaustivi su tutti i punti indicati, ma in alcuni trovate dei link ad altre pagine di questo sito per approfondire. Ho intenzione di approfondire alcuni degli aspetti in altri articoli di cui poi riporterò i link in questa pagina.
INDAGARE GLI ASPETTI ORGANICI
Partiamo comunque dal nostro corpo. E’ bene valutare se siamo in una condizione di sufficiente equilibrio, oppure se abbiamo superato un punto di rottura.
Dobbiamo prendere in considerazione in prima battuta (anche se in modo inizialmente semplificato):
Alimentazione. Fondamentale nutrirsi in modo adeguato, ovvero avere nutrienti ed energia secondo i nostri bisogni fisiologici, scegliendo materie prime di qualità ed associazioni alimentari adeguate. Vedi gli articoli con TAG “alimentazione”.
Idratazione. Deve essere sufficiente, in modo da mantenere la giusta quantità di acqua nel corpo utilizzando quella necessaria alla sua depurazione e al mantenimento della temperatura corporea (sudorazione). Anche il tipo di acqua assunta è importante, perché fornisce minerali e può essere più o meno inquinata.
Riposo. Il sonno deve essere sufficiente e di buona qualità.
Inquinanti. L’esposizione ad agenti inquinanti richiede un grosso lavoro di detossificazione dell’organismo ed influisce sulle sue attività metaboliche e funzionali. A lungo termine alcuni elementi possono anche determinare vere e proprie malattie.
Pressione arteriosa e altri parametri vitali. Sono semplici segni, pertanto non possono essere disgiunti dal resto, ma lo rispecchiano.
Esami di laboratorio. Possono rivelare disfunzioni della tiroide, presenza di anemia, alterazione degli elettroliti ematici, alterazioni epatiche o della funzione renale, ipo- o iperglicemia a digiuno, dislipidemie, modificazioni di urine e feci.
Funzionalità cardiaca, polmonare, intestinale. Una valutazione di questi organi e degli apparati di cui fanno parte (inizialmente semplice) può mostrare alterazioni da indagare meglio.
Esercizio fisico, postura e funzionamento dell’apparato muscolo-scheletrico. Mantenere il corpo in movimento senza eccessi è essenziale per un buon tono generale fisico e mentale. Perché questo possa avvenire, oltre ad un impegno costante, è necessario valutare che non vi siano impedimenti funzionali, ed eventualmente trovare soluzioni adatte alle proprie condizioni particolari (ce ne sono sempre!).
Nella donna: ciclo mestruale, eventuale stato di gravidanza, o menopausa.
Altro che potrebbe evidenziarsi durante visita medica.
A questa prima valutazione ne vanno poi eventualmente integrate altre in base ai risultati ottenuti. Ad esempio studio dei sistemi immunitario ed endocrino (di quest’ultimo fa parte la funzione tiroidea, da indagare al primo livello), approfondimenti cardiologici, gastrointestinali, di laboratorio, ecc.
CONSIDERARE GLI ASPETTI MENTALI E PSICOSOMATICI
Il nostro modo di pensare, di percepire il mondo e di reagire a ciò che ci succede incide molto sul nostro funzionamento generale. Bruciamo tante energie in modo sconsiderato, ma senza rendercene conto, e le conseguenze sono difficoltà di concentrazione, umore depresso, stanchezza mentale e fisica.
Alcuni spunti da considerare inizialmente:
Imparare a percepire le tensioni corporee. I muscoli possono avere tensioni più o meno continue (ad es. nelle spalle, nel collo, nel volto, ecc.). Nelle parti interne si possono percepire tensioni (ad es. nel petto, nella pancia, negli occhi, nella gola, ecc.). Queste tensioni corrispondono ai nostri vissuti interiori (emozioni, difese), ma non è detto che ad essi possiamo collegarli così facilmente. Vedi anche: Blocchi psicosomatici.
Conoscere i propri meccanismi difensivi. Ognuno di noi ha delle modalità difensive presenti in modo continuo o che si attivano in particolari situazioni. Ad esempio qualcuno è in continua tensione e può diventare aggressivo, qualcun altro eccessivamente anergico e si chiude nel silenzio e nella sottomissione. In ogni caso sono reazioni molto potenti, che richiedono grandi energie fino a depauperarle. Realizzare che abbiamo questi meccanismi e quali sono è un punto di partenza per iniziare a conoscerli e comprenderli, ed infine a togliere loro forza. Non è un percorso breve e tantomeno automatico, ed è bene avere un supporto e un confronto.
Sviluppare la consapevolezza di Sé. Questo significa conoscersi meglio, concedersi di lasciare andare le tensioni e le difese, armonizzando così l’attività cerebrale e corporea con la nostra interiorità spirituale più profonda. Nella pratica meditativa si sviluppa gradualmente un’accettazione di ciò che c’è in quel momento, attitudine fondamentale per la crescita interiore ed il benessere generale della persona. Allo stesso tempo ci si concede di rallentare quel ritmo frenetico a cui siamo abituati al giorno d’oggi, sensibilizzandoci a ciò che normalmente non possiamo sentire. Vedi anche: Praticare la consapevolezza (mindfulness) per un benessere globale.
Limitare l’utilizzo di apparecchiature elettroniche come PC, tablet, smartphone, TV, videogiochi, ecc. Tutti questi dispositivi utilizzano molte energie mentali e tendono ad irritare il sistema nervoso. Inoltre perdiamo facilmente la consapevolezza del momento presente, fondamentale per il nostro benessere, perché ci proiettano passivamente in dimensioni virtuali.
Riconoscere la difficoltà di “non fare” e concedersi momenti di pausa e svago da soli o con i nostri affetti. Spesso siamo presi da mille attività diverse, passiamo da una all’altra in modo frenetico e confuso. Non riusciamo a concederci momenti di vero “stacco”, perché siamo bombardati da sms, mail, tv, lavoro, diventando estranei a noi stessi e a coloro che ci sono più vicini. Proviamo a considerare la stanchezza come richiesta esplicita di un ritorno a noi e alle nostre necessità più umane, naturali e reali.
Riconoscere che abbiamo necessità di modificare qualcosa nella nostra vita in modo da concederci di essere ciò che siamo. Prova a rispondere a queste domande: Come sono io? Quali sono i miei desideri più profondi? Dove mi sento forzato, costretto, e lontano dal mio essere più vero? Ti consiglio di scrivere le risposte.
Considerare il proprio stato emotivo di fondo. Quando la stanchezza eccessiva è associata ad un umore fortemente depresso, alla mancanza di energie interiori e di voglia di fare, all’evitamento delle relazioni, e all’impossibilità di provare piacere nel fare qualsiasi cosa, allora è bene parlarne col proprio medico e farsi aiutare.
CONCLUSIONI
Questo percorso non può che essere molto graduale, senza forzature che creerebbero solo nuove tensioni e ulteriori difficoltà. E’ opportuno confrontarsi, avere supporto, e in alcuni momenti anche una vera e propria guida.
Se tutto questo ti sembra eccessivo inizia dal punto che riconosci meglio possa fare al caso tuo e sperimentalo. Se, al contrario alcune cose ti appaiono come scontate, non farci caso e passa alle altre!
La stanchezza cronica quindi richiama la persona ad un’attenzione maggiore verso se stessa. Questo significa cercare nuovi modi per volersi bene nel modo di nutrirsi, impegnarsi e pensarsi. Non esiste una medicina o un singolo trattamento per la stanchezza, la valutazione deve essere ampia in modo che possa evidenziare i punti più importanti sui quali cominciare a lavorare.
Molte persone lamentano disturbi della memoria che interferiscono in modo più o meno importante nella loro vita quotidiana. Dimenticanze di vario tipo, come perdere un’appuntamento o non ricordare dove è stato lasciato qualcosa, mettono in luce un lieve disturbo della memoria, che può avere caratteristiche del tutto transitorie.
C’è da dire che può capitare a tutti, di tanto in tanto, di dimenticare qualcosa, soprattutto quando siamo stanchi o troppo presi da qualche attività, per cui non è assolutamente preoccupante se avviene sporadicamente e non influenza più di tanto la vita quotidiana.
Di solito non si tratta dimenticanze molto gravi e nemmeno troppo frequenti, per cui ci si rassegna e non si chiede nemmeno aiuto. Infatti spesso questa domanda è secondaria, cioè la persona si è rivolta a me per altri motivi. Questo evidenzia anche una scarsa fiducia nella possibilità di migliorare le proprie capacità mnemoniche.
Tipicamente chi soffre di «dimenticanze» ha la sensazione di avere la testa piena di problemi, cose da fare, impegni, pensieri. In altri casi la persona vive poco in contatto con ciò che la circonda, sembra che abbia la testa fra le nuvole, e magari non ha nemmeno tanti impegni da seguire. Quello che può accomunare questi due apparenti estremi è la scarsa concentrazione.
Quando preoccuparsi seriamente
In alcuni casi i disturbi sono pesanti e mettono in grave difficoltà la persona e chi le sta vicino, situazioni che richiedono sempre un’attenta valutazione specialistica.
Attenzione particolare va dedicata anche alle forme che insorgono acutamente o si aggravano in tempi piuttosto rapidi. Talvolta sono i parenti a riferire questo disturbo, mentre l’interessato sottostima (o addirittura nega) il problema, risultandone del tutto inconsapevole. È importante tener conto seriamente di disturbi della memoria legati ad altre alterazioni della salute psicofisica della persona. Un disturbo della memoria di questo tipo va immediatamente riferito al medico, il quale procederà con testistiche appropriate o invierà a consulenza specialistica.
È inoltre essenziale distinguere almeno tra memoria a breve termine, ovvero quella che riguarda l’immagazzinamento temporaneo di informazioni, e memoria a lungo termine, quella che ci consente di ricordare fatti, persone, luoghi, e molto altro dal nostro vissuto passato. In genere il disturbo più frequente riguarda la memoria a breve termine, ad esempio non memorizziamo un nome o un numero enunciato poco prima, magari dimentichiamo dove abbiamo messo le chiavi, o dove abbiamo parcheggiato la macchina.
Un disturbo ben più grave è senz’altro quello legato alla perdita di memoria riguardante ricordi ben fissati precedentemente (memoria episodica), oppure in alterazioni della capacità di dare un nome alle cose o riconoscere persone e luoghi (memoria semantica), oppure ancora perdita della capacità di eseguire compiti precedentemente ben conosciuti (memoria procedurale).
Il «centro» della memoria
La memoria non ha un vero e proprio luogo nel cervello, è sempre più chiaro che quest’ultimo lavora in maniera unitaria e probabilmente olografica, ovvero una certa informazione è contenuta allo stesso momento in più aree (non solo cerebrali, ma anche corporee), ma con diversi livelli di dettaglio. Un ricordo, quindi, è dato da uno «stato» del sistema nervoso, e non è localizzato in un punto preciso al suo interno. Il cervello ha, comunque, nelle sue varie regioni anche funzioni specifiche, ma queste interagiscono sempre ampiamente tra loro.
L’ippocampo è una regione cerebrale centrale per la funzionalità della memoria, ha inoltre un ruolo fondamentale nell’equilibrio emotivo (fa parte del sistema limbico) e nella risposta agli stimoli stressogeni cui siamo sottoposti continuamente. Il suo sviluppo è determinato in buona parte dalle cure genitoriali, ovvero dal modo in cui i genitori si relazionano col bambino. Cure materne più amorevoli e supportive nel periodo di vita prescolare del bambino portano ad uno sviluppo superiore di quest’area, contribuendo quindi anche ad un miglior equilibrio emotivo [1]. Situazioni di stress cronico, in seguito all’aumento del cortisolo (detto anche «ormone dello stress») che blocca la capacità dei suoi neuroni di assumere glucosio, invece portano ad una riduzione della funzionalità e del volume dell’ippocampo anche nell’adulto.
L’ippocampo è proprio inserito nel circuito di regolazione del cortisolo: in una situazione di stress cronico riduce la sua capacità di regolarlo, portando a risposte meno efficaci dell’organismo (il cortisolo resta elevato per più tempo) [2]. Tutto questo è alla base di problemi di memoria che lamentano tante persone, giovani e adulte.
Bisogna ricordare che lo stress cronico porta anche ad alterazioni del sistema immunitario, a depressione, a situazioni di infiammazione e ad una rigenerazione cellulare ridotta. Tutti questi aspetti, insieme, conducono ad una salute precaria, predisponendo a malattie acute e croniche.
Cervelli in forma
Parlando dell’ippocampo abbiamo messo in luce collegamenti tra memoria, vita sociale, emozioni e stress.
Il nostro cervello ha bisogno di continui stimoli per mantenersi in forma, quindi anche una vita povera di relazioni sociali, attività e impegni, può portare ad una progressiva riduzione dell’attività cognitiva, come può accadere nelle persone anziane, emarginate, o portatrici di malattie debilitanti.
È facile rendersi conto di come alcune informazioni restino impresse nella nostra mente in maniera indelebile, mentre altre tendano a scivolare immediatamente senza essere nemmeno trattenute per pochi istanti. Da cosa dipende tutto questo? Importanza fondamentale è data dallo stato mentale in cui ci troviamo in quel momento e dalla valenza emotiva dell’informazione stessa.
Uno «stato di presenza» consapevole (mindfulness) favorisce l’attenzione e la memorizzazione. Non mi dilungherò su questo aspetto già ampiamente trattato in altre pagine del sito (vedi ad esempio: Praticare la consapevolezza (mindfulness) per un benessere globale).
Avvenimenti dalla forte connotazione emotiva, quale essa sia, restano più facilmente impressi nella memoria. In questi casi, infatti, specifiche aree cerebrali (come amigdala e ipotalamo) sono già state attivate rilasciando sostanze (come dopamina e catecolamine) che determinano più prontezza nella risposta psicofisica. Le emozioni sono reazioni interiori che danno peso e coloritura a ciò che avviene, quindi attraverso di esse riconosciamo anche cosa è importante memorizzare. Quando viviamo una certa situazione in modo distaccato, senza emozione, più facilmente ce ne dimentichiamo. Infatti, non ricordiamo tutte le volte che siamo entrati in un supermercato, in un cinema, o in una chiesa, ma probabilmente abbiamo ricordi di momenti specifici vissuti in questi luoghi che hanno suscitato in noi particolari emozioni.
Quando abbiamo necessità di memorizzare un dato è quindi utile associarlo a qualcosa che ci è caro, o comunque ben conosciuto. Ad esempio incontriamo una persona per la prima volta e ci dice che si chiama «Rossella». Per non dimenticarlo possiamo immediatamente associarla ad una persona che conosciamo con lo stesso nome. Se non conosciamo nessun omonimo, possiamo effettuare altri collegamenti visivi, in questo caso ad esempio: l’immagine di una rosa, la persona stessa vestita di rosso, ma anche una sella di una bicicletta potrebbe aiutarci…
Rielaborare i contenuti di un’informazione, sia essa rappresentata da un numero di telefono, un nome, o dettagli di altro tipo, è sempre un’operazione utile per ricordarla. Anche il solo ripetere a voce alta è già una rielaborazione, perché questa azione richiede un passaggio di modalità sensoriale (ad esempio dall’immagine alla verbalizzazione) e quindi un lavoro cerebrale che necessita e determina collegamenti tra diverse aree.
Esistono anche tecniche specifiche di memorizzazione, ma esulano dagli scopi di questo articolo.
Insomma, la pillola della memoria?
La risposta quindi, in genere, non è da ricercarsi in un rimedio farmacologico. Sicuramente è fondamentale osservare uno stile di vita che rispetti le necessità del nostro organismo:
corretta alimentazione
sufficiente attività fisica
adeguato riposo
I nemici della memoria
Il fumo e l’eccesso di alcol possono portare a danni irreversibili, non solo sull’attività cerebrale, ma anche sull’apparato cardiovascolare, che si occupa di fornire i nutrienti vitali a tutto il corpo, nonché ad altri organi. Una assunzione eccessiva di caffeina, teina, o bevande a base di cola o guaranà, può compromettere alcune attività del nostro sistema nervoso.
Tenere sotto controllo parametri fisici come la pressione arteriosa, la colesterolemia e il peso corporeo, significa contribuire al benessere generale del nostro corpo e della nostra mente.
Una dieta sbilanciata o favorente l’infiammazione è nemica del cervello, così come lo sono la carenza di sonno e l’eccessiva sedentarietà.
Anche un utilizzo eccessivo di sistemi elettronici (computer, smartphone, tv, ecc.) può far perdere l’allenamento nella memorizzazione, nel calcolo a mente, e determinare una iperattivazione irritativa del sistema nervoso centrale.
Dieta, integratori e altro
Nota bene: ciò che viene descritto in seguito ha il solo scopo informativo, non è da considerarsi un consiglio medico.
In alcuni casi una integrazione dietetica può essere d’aiuto, ma non deve essere considerata sostitutiva di un buon regime alimentare. La vitamina E, ad esempio, è essenziale per le membrane neuronali ed ha un effetto antiossidante, la vitamina B12 e i folati sono essenziali per una normale attività del sistema nervoso.
Alimenti che possono favorire la memoria (e non solo) ad esempio sono:
Colina: sostanza fondamentale di membrane cellulari e neurotrasmettitori ed ha attività antiossidante. E’ contenuta ad esempio in semi di soia, uova (tuorlo), fegato, rene, cavolfiori, arachidi, pollo.
Mirtilli: contengono pro-antocianidine (antiossidanti) e altre sostanze protettive nei confronti di cervello e vasi sanguigni, favoriscono il metabolismo lipidico e glicemico. NB: hanno attività antiaggregante piastrinica, di per sé favorevole nella prevenzione degli eventi cardiovascolari, ma aumenta il rischio di sanguinamento se in terapia con farmaci antiaggreganti piastrinici o anticoagulanti.
Curcuma: numerose attività benefiche per l’organismo, azione antiossidante e antinfiammatoria. Evitare in caso di calcoli biliari.
Farmaci omotossicologici o rimedi omeopatici mirati possono invece fornire substrati utili al ripristino di una migliore funzione mnemonica e cerebrale, ma vanno scelti attraverso una conoscenza sufficientemente approfondita della persona e del suo problema.
Relazioni e interiorità
Lavorare su noi stessi ricercando uno stato interiore presente, sano e attivo (vedi le considerazioni fatte sopra su stile di vita, pratica meditativa, ecc.) in ogni momento della nostra vita è senz’altro il primo e fondamentale passo. Finché viviamo concentrati solo sui nostri doveri, problemi, paure, o impegni, non riusciamo ad essere veramente presenti nel qui ed ora.
È importante prendere in considerazione il modo che abbiamo di affrontare le relazioni, la nostra interiorità, e il carico quotidiano di impegni. Imparare ad ascoltarsi è fondamentale, in questo la pratica meditativa e l’attività bioenergetica corporea si inseriscono perfettamente, permettendo di raggiungere uno stato di miglior consapevolezza di Sé, associata a quiete interiore, rilassamento fisico e migliore riposta allo stress. Migliorano inoltre l’attenzione e la concentrazione, riducono l’ansia e la depressione.
Sentire e vivere il corpo fa parte di questa consapevolezza. Questa potrebbe farci rendere conto che stiamo chiedendo troppo a noi stessi e che quindi non ci stiamo prendendo cura di noi con sufficiente amorevolezza.
Bibliografia
J. L. Luby et al., Preschool is a sensitive period for the influence of maternal support on the trajectory of hippocampal development, PNAS 2016 ; published ahead of print April 25, 2016, doi:10.1073/pnas.1601443113
F. Bottaccioli, Psiconeuroendocrinoimmunologia, Red Edizioni, 2005, p. 438-439
Cartellone prodotto dai ragazzi di una scuola (convegno di Psicosomatica PNEI – Lucca 2016)
Con il progetto Gaia è possibile portare in classe un momento di consapevolezza psicofisica attraverso gli strumenti teorico-pratici offerti dalle moderne neuroscienze e dalle antiche discipline meditative e corporee.
Gli obiettivi
L’obiettivo principale di questo progetto è di favorire una maggiore espressione delle emozioni, aumentare la capacità di concentrarsi, rinforzare l’autostima e la coesione nel gruppo classe, educare alla sostenibilità e ai diritti umani per una cittadinanza globale, e infine aiutare quei soggetti che hanno difficoltà comportamentali.
Il corso prevede momenti teorici, pratiche di ascolto e movimento corporeo, respiro consapevole, momenti di condivisione e confronto. La finalità degli incontri è, in breve, quella di sviluppare maggiori consapevolezza e benessere psicofisici. Le pratiche proposte sono validate scientificamente da numerose ricerche psicologiche e cliniche internazionali che ne provano l’efficacia in termini di:
La stanza è pronta per l’incontro, scuola primaria di Villa Verucchio – Rimini (2016)
riduzione dello stress, dell’ansia e della depressione
miglioramento del benessere psicofisico e della stima di sé
miglioramento della capacità di attenzione, della concentrazione e del rendimento scolastico o lavorativo
Con gli alunni
In classe, insieme all’insegnante. Il protocollo è applicabile, con opportuni adattamenti, a classi di ogni ordine e grado a partire dall’ultimo anno della scuola materna. Percorso di 12 incontri di 1 ora ciascuno a cadenza settimanale.
Formazione per gli insegnanti
Un momento formativo per insegnanti, scuola primaria di Villa Verucchio – Rimini (2016)
Formazione teorico-pratica specificamente dedicata agli insegnanti. Percorso di 12 incontri di 1 ora, oppure 6 incontri di 1 ora e mezza ciascuno a cadenza settimanale.
Modalità e costi
Il percorso è proposto in maniera totalmente gratuita.
Il dolore è la forma di sofferenza che opprime quasi chiunque soffra di una malattia o una condizione clinicamente significativa. Nelle forme dolorose croniche, in particolare, la sofferenza fisica e psicologica diventa continua, rendendo la vita assai difficoltosa e limitata. Il dolore occupa uno spazio nell’esistenza di quella persona, rubandone ad attività, relazioni, interessi. Si tratta di una delle principali cause di sofferenza e disabilità, infatti il dolore cronico affligge moltissime persone (quasi il 20% della popolazione) [1] e la maggior parte delle persone anziane (circa il 60%) [2].
La terapia del dolore può essere impostata e gestita nei modi più svariati, a seconda del quadro clinico sottostante, delle caratteristiche della persona, delle componenti che ne determinano l’esperienza, e delle preferenze di medici e pazienti. Le varie possibilità in genere non si escludono le une alle altre, ma al contrario possono essere utilizzate in maniera sinergica per ottenere effetti più significativi.
Vediamo di seguito alcune tecniche terapeutiche utilizzabili nel dolore acuto e cronico (non tratterò tecniche specifiche).
FARMACI
Tipicamente vengono utilizzati farmaci, in sequenza e/o associazione, che vanno dal paracetamolo, ai FANS (farmaci antinfiammatori non-steroidei), agli oppioidi minori, fino agli oppioidi maggiori, che sono i più potenti in assoluto.
Bisogna considerare che questo tipo di trattamento spesso non è risolutivo, determina una riduzione del dolore, ma non porta a miglioramento della patologia che lo ha generato. Inoltre gli oppioidi vanno incontro a tolleranza, per cui sono necessarie dosi progressivamente superiori per ottenere lo stesso effetto (salvo quando lo stato doloroso è in spontaneo miglioramento, come dopo un trauma o un intervento chirurgico). Tutti i farmaci possono avere effetti collaterali, soprattutto se utilizzati a lungo.
AGOPUNTURA
L’agopuntura è una terapia con evidenza di qualità alta in: dolore lombare, cervicale, al ginocchio, oncologico, da travaglio di parto. Ha un’evidenza di qualità moderata in: dolore alla spalla, epicondilite, dolore dell’anca, dolore postoperatorio, fibromialgia. [3]
In generale non ha effetti collaterali e tende a vedere l’individuo nella sua interezza piuttosto che curare il sintomo o la malattia.
PRATICHE MEDITATIVE
Il dolore affligge tutta la persona ed è largamente influenzato dall’esperienza e dall’interpretazione che ne fa il soggetto che lo prova. Per questo trovare altri modi per vivere il rapporto col corpo e con le sue sensazioni (compreso il dolore) può condurre al miglioramento della qualità della vita, anche in corso di malattie croniche.
La mindfulness è una pratica meditativa che determina ottimi risultati nella riduzione del dolore acuto e cronico, anche nei casi in cui la risposta agli oppioidi è ridotta da un uso prolungato. In questo caso, infatti, uno studio scientifico ha dimostrato che l’effetto analgesico non è dovuto all’attivazione del sistema oppioide presente nel nostro sistema nervoso centrale [4].
Per approfondire puoi leggere l’articolo del 16 marzo 2016 su Le Scienze dal titolo “Il sollievo dal dolore che viene dalla meditazione” [5].
In realtà l’attività meditativa può anche determinare rilascio di oppioidi endogeni (endorfine), quindi essenzialmente si è dimostrato che agisce anche in modi diversi. Le endorfine, oltre all’effetto analgesico, portano ad una sensazione di euforia e leggerezza, che riduce le preoccupazioni e l’ansia. [6]
La pratica meditativa ha molti altri effetti positivi sulla persona, per approfondire vedi gli altri articoli su questo sito. [7]
ATTIVITA’ FISICA
Siamo esseri fatti per muoverci, la sedentarietà è fortemente lesiva per il metabolismo, l’apparato cardiovascolare, la memoria, e tante altre funzioni fisiologiche. L’attività fisica, soprattutto eseguita all’aperto, è fonte di benessere per tutta la persona.
Un’attività fisica moderata è indicata per tutti e ha un effetto positivo sul controllo del dolore. Chi è affetto da dolore cronico tende a muoversi poco, per la paura e la percezione del fastidio associato al movimento, ma è ben provato che il movimento e un’attività fisica adeguata determinano miglioramento del dolore stesso. [2]
IN CONLUSIONE
Chi soffre di dolore cronico, fa uso terapeutico di oppioidi e non ottiene più sufficiente controllo del dolore, oppure preferisce non utilizzarli per scelta, ha altre armi per cercare di ottenere una migliore qualità della vita.
Una delle preoccupazioni più grandi delle persone che incontro è quella di sviluppare malattie. Spesso riscontro poca fiducia nel funzionamento del proprio organismo e, oso dire, anche nella vita stessa. Al contrario, tanta fede viene riposta nella medicina preventiva e negli esami diagnostici, ma anche nella potenziale cura farmacologica.
Senza togliere nulla ai grandi risultati dei mezzi che oggi abbiamo a disposizione, non dobbiamo dimenticarci della capacità del nostro corpo di autogestirsi e autoregolarsi e della responsabilità che abbiamo nella cura di noi stessi. Questo significa dare fiducia alla vita (inteso in tutti i sensi) e accorgersi allo stesso tempo che essa è nelle nostre mani. La Natura sa cosa fare e come farlo, credo che la fotografia possa esprimerlo: tutto appare sano e rigoglioso.
Sviluppo delle malattie
Per quanto importante possa essere curarsi appropriatamente in caso di malattia, si tratta sempre di qualcosa che facciamo “in ritardo”. La prevenzione vera (primaria) è quella che arriva in tempo per evitare lo sviluppo della malattia stessa.
Non amo pensare che una malattia sia un difetto dell’organismo, mentre sono convinto che sia il risultato di una complessa interazione tra svariati fattori: ambiente, personalità, alimentazione, stile di vita, emozioni, cura del sonno, predisposizione, ecc.
La genesi di una malattia è complessa almeno quanto la persona stessa. Aumentare la consapevolezza di Sé significa accorgersi di come si sta vivendo e poter correggere il tiro sulla base di un sentito profondo, che può essere soltanto vero, oltre che unico per quella specifica persona. In questo senso la psicosomatica può venirci in aiuto e darci gli strumenti per affrontare la conoscenza di noi stessi e attuare cambiamenti dove necessario.
I tumori
Lo sviluppo di un tumore è rappresentato da una prima alterazione cellulare che la porta ad una moltiplicazione ripetitiva, senza controllo, creando un tessuto anomalo. Questo tessuto col tempo può occupare eccessivamente spazio alterando localmente l’organismo, produrre sostanze tossiche ed eventualmente disseminarsi in altre aree del corpo (metastasi).
Normalmente una cellula alterata viene riconosciuta e distrutta dal sistema immunitario, per cui non è possibile che si moltiplichi. La funzionalità di questo sistema è pertanto fondamentale ed esso è ampiamente connesso a tutti gli altri sistemi dell’organismo, come ben descritto dagli studi di PsicoNeuroEndocrinoImmunologia. Alimentazione, eventuale integrazione, e gestione dello stress sono la base per un suo funzionamento ottimale, necessario anche in caso di malattia conclamata.
Un tumore può svilupparsi più facilmente in un ambiente molto sollecitato da infiammazione e stimoli ormonali eccessivi. Anche qui il nostro modo di essere, di comportarci, e di interagire col mondo (alimentazione compresa) sono essenziali.
Stili di vita anti-cancro
Lo stile di vita è rappresentato da abitudini e scelte che attuiamo ogni giorno. Oggi è ben documentato quanto questo possa influenzare la nostra salute e, in particolare, possa contribuire a prevenire malattie cardiovascolari, tumori e diabete. La stessa proprietà viene attribuita anche alla pratica regolare della mindfulness, che può entrare a far parte a pieno titolo dello stile di vita della persona.
La AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro) propone 10 punti fondamentali per uno stile di vita anti-cancro. Fermo restando quanto ho espresso e considerando quanto aggiungo in conclusione, mi trovo molto d’accordo sulle proposte descritte, tutte basate su evidenze scientifiche. Le riassumo brevemente di seguito, rimandando alla pagina specifica dell’associazione per la descrizione.
Mantenersi snelli per tutta la vita
Mantenersi fisicamente attivi tutti i giorni
Limitare il consumo di alimenti ad alta densità calorica ed evitare il consumo di bevande zuccherate
Basare la propria alimentazione prevalentemente su cibi di provenienza vegetale, con cereali non industrialmente raffinati e legumi in ogni pasto e un’ampia varietà di verdure non amidacee e di frutta
Limitare il consumo di carni rosse ed evitare il consumo di carni conservate
Limitare il consumo di bevande alcoliche
Limitare il consumo di sale (non più di 5 g al giorno) e di cibi conservati sotto sale. Evitare cibi contaminati da muffe (in particolare cereali e legumi)
Assicurarsi un apporto sufficiente di tutti i nutrienti essenziali attraverso il cibo
Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi
Nei limiti dei pochi studi disponibili sulla prevenzione delle recidive, le raccomandazioni per la prevenzione alimentare del cancro valgono anche per chi si è già ammalato
Cosa manca a questo decalogo (in parte sul sito AIRC sono descritte altrove):
evitare il fumo
praticare la mindfulness giornalmente
praticare esercizi di energetica almeno 2-3 volte la settimana
mantenere rapporti sentimentali stabili, evitare rapporti sessuali occasionali e non protetti
evitare farmaci e sostanze non assolutamente necessari
bere acqua abbondantemente
Tutto questo ha un senso più profondo quando riusciamo a vivere la vita nell’ascolto di noi stessi, con fiducia, gioia e libertà.
Nota bene: Questo articolo, come gli altri di questo sito, è volutamente semplificato e non ha la pretesa di spiegare approfonditamente le cause delle malattie, la loro prevenzione e la loro cura. Pertanto non sostituisce il consiglio o il parere medico.
Chiudendo gli occhi e portando l’attenzione al nostro interno possiamo scoprire un ricco mondo inesplorato. Ciò che proviamo in quel modo è il nostro tesoro, siamo noi. Possiamo sentire esattamente quello siamo, vivere questo momento e accorgerci che non è necessario identificarci con i nostri pensieri, col nostro corpo, con ciò che facciamo. Siamo e basta, qui e ora.
Questo mondo interiore, se accolto senza giudizi e catalogazioni, è puro, vero e libero. Puro perché non contaminato dall’esterno, vero perché è reale e vivo, libero perché non condizionato dai giudizi.
Tutto questo si chiama consapevolezza. Mindfulness è il termine inglese internazionalmente utilizzato per identificare questa modalità di approccio alla vita e la pratica meditativa che ne permette l’acquisizione.
Vivere in consapevolezza significa sentire chi siamo e che ci siamo, riconoscendo le nostre potenzialità e il ruolo che abbiamo nel guidare le nostre esperienze e le nostre relazioni, acquisendo di conseguenza anche fiducia in noi stessi e nella vita.
Per vivere il presente in questo modo abbiamo bisogno di un forte radicamento nel corpo. La mente facilmente vaga tra passato, presente e futuro, immaginato e reale, pensiero e consapevolezza di ciò che ci circonda. Il corpo invece, essendo fisico, vive nel presente e ci rimanda infinite sfumature sensoriali ed emotive. Attraverso esso, senza dimenticare che siamo un’inscindibile unità vivente, possiamo conoscere meglio la nostra interiorità e i nostri vissuti, è quindi essenziale sentirlo e ascoltarlo.
La consapevolezza parte dal nostro respiro, che in qualche modo nutre, rappresenta, ed esprime la nostra stessa vita.
Praticare la mindfuness significa dedicare del tempo a noi stessi e al miglioramento del nostro benessere globale. Tantissimi studi medico-scientifici ne hanno dimostrato l’efficacia in termini di miglioramento del benessere psicologico e corporeo, della performance cognitiva, della memoria, della capacità di attenzione, della capacità di affrontare lo stress e il carico emozionale, dell’empatia, dell’intelligenza emotiva, e di manifestazioni corporee come il dolore cronico e le tensioni muscolari. Più tecnicamente, all’elettroencefalogramma (EEG) è possibile rilevare un aumento della coerenza interemisferica cerebrale con onde armoniche e picco alfa e theta, associati ad un miglior flusso informazionale e coordinamento funzionale tra le regioni del cervello. Al contrario, tracciati EEG a bassa coerenza interemisferica sono stati associati a stati depressivi e psicotici, a bassa consapevolezza di Sé, e all’invecchiamento. Altri studi hanno dimostrato che specifiche aree del cervello deputate all’attenzione, all’integrazione emozionale e alla memoria sono più sviluppate nelle persone che praticano la meditazione.
Oltre a questa esperienza psicofisica si aggiunge quella spirituale: vivendo in consapevolezza abbiamo la grande possibilità di sperimentare in maniera semplice, reale e consapevole, che la nostra esistenza va oltre il nostro corpo, una sorta di “livello energetico”, che ci connette con quel Tutto di cui facciamo parte.
Conoscere le nostre profondità significa quindi anche aprirsi all’infinito, acquisendo un senso di appartenenza e di pace interiore, i quali non possono che portare all’amore di Sé, del nostro prossimo e di tutto ciò che ci circonda. Questo è assolutamente in linea con qualsiasi orientamento religioso. Il credente può fare un’esperienza che rafforza e ravviva la propria fede, ma anche il non credente può aver modo di conoscere senza tramiti il mondo spirituale.
Ecco perché la mindfulness è la pratica base della psicosomatica olistica: a partire da questa consapevolezza possiamo lavorare su noi stessi e recuperare l’integrità della nostra esistenza, formata da psiche, corpo, socialità e spiritualità. Uno stato “centrato” e “integrato” è quindi alla base del nostro benessere globale.
Per iniziare a vivere in consapevolezza è necessario praticarla con una certa costanza. Per questo occorre dedicarvi un po’ di tempo in un ambiente non disturbato. Il modo migliore è partecipare ad un gruppo, la mia proposta si chiama Obiettivo Benessere Globale (contattami se sei interessato, guarda la sezione Eventi se ci sono incontri aperti prossimamente), altrimenti lo si può fare anche da soli, ad esempio seguendo una traccia audio-guida (vedi ad esempio qui).
Per “malattie genetiche” si intendono quelle condizioni patologiche, spesso ereditabili, in cui si riscontra un’alterazione del DNA correlabile alla patologia stessa. Per esempio in una malattia caratterizzata da insufficienza di un enzima la relativa sequenza genetica che la codifica è modificata. In questi casi, se l’organismo non ha modo di compensare il difetto, si manifestano sintomi e segni che nel complesso caratterizzano la patologia. Spesso queste condizioni si riscontrano nelle prime fasi della vita (alcune non sono compatibili con la vita stessa e la morte avviene in utero).
Nell’articolo Vivere meglio è prevenire invece mi riferivo invece a condizioni in cui l’alterazione genetica è solo uno dei fattori che predispone alla malattia.
Le malattie genetiche si determinano nel momento in cui “nasce” il DNA della prima cellula dell’individuo (o nelle primissime divisioni cellulari). Sappiamo che una parte del nostro DNA proviene dalla madre (50% del patrimonio genetico nucleare più quello mitocondriale) e la restante dal padre. Nel corso della meiosi, che è il processo di produzione dei gameti, ovvero degli ovociti e degli spermatozoi, avvengono riarrangiamenti di alcune sequenze geniche, che saranno diverse da quelle dei genitori. L’incontro dei gameti porta ad un nuovo ed unico DNA, che sarà trasmesso a tutte le cellule del nuovo individuo, anche se in questa trasmissione sono possibili variazioni (di solito molto piccole).
Quando da questo processo risulta un individuo portatore di alterazioni genetiche che portano a patologia, si parla di “errore”. Quindi la malattia genetica sarebbe un “errore della natura”. Allo stesso modo sono considerate spesso le malattie comunemente acquisite in età successive.
Io non credo tanto negli errori della natura, penso che là dove non capiamo, dove un processo sembra casuale, ci sia dietro qualcosa che ancora non comprendiamo, ma che una sua logica e intelligenza probabilmente ce l’ha.
Come posso pensare che una malattia sia determinata da un processo logico e intelligente? Non tutto avviene secondo il nostro modo di concepire le cose o le nostre preferenze. Stiamo diventando individui oltre la specie, ognuno di noi si percepisce come se fosse la cosa più importante al mondo, ma le leggi della natura non vanno in questa direzione. L’evoluzione è un fatto, ognuno di noi ha dentro la storia dei suoi antenati, e pensare che siamo come siamo per un casuale processo evolutivo mi sembra alquanto riduttivo e improbabile. Addirittura da questo modo di pensare è nata la teoria secondo cui l’essere umano sarebbe nato da un “errore genetico avvenuto 500 milioni di anni fa”… Io nella Natura ci vedo senso e intelligenza, non casualità ed errori.
Sono convinto che ogni modulazione del nostro organismo sia sensata, al fine di rispondere agli stimoli cui veniamo sottoposti, siano essi di natura fisica, alimentare, o psichica. Quando ingeriamo una sostanza nociva (in generale, o anche solo per noi) in genere la vomitiamo, o ci viene la diarrea, o abbiamo dei sintomi addominali, oppure anche generali. Quando siamo sottoposti ad uno stress intenso (non entro nello specifico per non dilungarmi) possiamo avere gli stessi sintomi.
Quante persone raggiungono il pronto soccorso con sintomi dell’infarto miocardico, o di una appendicite, senza averne la traccia! Anche quando si presentano fisicamente queste malattie è spesso possibile notare, insieme alla persona stessa, che c’è stato un forte e/o prolungato stimolo stressogeno (sempre per essere generici) nella sua vita.
Se questo vissuto avviene durante la produzione dei gameti, cosa accade? Chi lo sa, è difficile dirlo, io penso sia possibile che il processo venga alterato, per cui se verranno concepiti figli da quelle cellule potranno essere portatori di mutazioni genetiche e quindi anche di malattie genetiche.
Non è ovviamente tutto qui, non credo nemmeno che ogni singolo caso sia riferibile a quanto ho appena scritto. Il progressivo aumento di anomalie genetiche con l’età della madre viene riferito a processi di invecchiamento dell’ovocita stesso, infatti la prima fase della meiosi femminile avviene durante la vita intrauterina, dopo di che viene bloccata fino all’ovulazione, che può avvenire per tutta la vita fertile della donna (quindi anche 40 e più anni dopo). Anche l’età paterna più avanzata è correlata a maggiori anomalie genetiche, in questo caso per minor capacità di produrre gameti geneticamente sani (gli spermatozoi vengono prodotti durante tutta la vita fertile dell’uomo).
E’ possibile evitare lo stress, i conflitti, i traumi? No, sono necessari e fanno parte della nostra vita. Ciò che possiamo fare è un percorso di crescita continua, che ci consenta di vivere più in armonia con la natura, in serenità e pace interiore, per poter affrontare lo stress in modo meno traumatico e più efficiente.
E’ fondamentale ricorrere ad azioni e attenzioni che mirano alla prevenzione, come una corretta alimentazione, un sano stile di vita e la ricerca continua di ampliamento delle nostre conoscenze per quanto riguarda ciò che può aiutarci a vivere meglio e più sani, o viceversa può predisporci ad ammalarci.
Da tutto questo non può che derivare un benessere più globale e conseguentemente anche meno malattie, siano esse genetiche o meno.
Ringrazio LB per avermi stimolato a scrivere questo articolo con il suo commento.
Sembra più facile mangiare patatine, bere bibite o alcolici, ipnotizzarsi davanti alla tv e isolarsi, rispetto a una dieta equilibrata e priva di sostanze dannose, una vita di relazioni e di progetti per il bene comune. Siamo più spesso tristi e arrabbiati, tesi e stanchi, piuttosto che felici e gioiosi, energici e liberi di esprimerci. Perché?
Una risposta secca potrebbe essere: perché siamo così intelligenti e liberi di scegliere da aver potuto prendere strade diverse da quelle “naturali”. Il riferimento non è tanto al singolo, quanto piuttosto alla società, che nella sua evoluzione ha determinato la costruzione dell’ambiente e dei modelli che troviamo e che ci condizionano.
Abbiamo imparato a chiuderci in noi stessi e a non esprimere il nostro essere, a pensare al nostro orticello e essere diffidenti, a mangiare e bere ciò che ci fa male, a comportarci in un certo modo perché ce lo hanno insegnato, a non giocare perché è cosa da piccoli, a fare più cose possibili per essere produttivi, a non considerarci abbastanza forti e importanti, ecc.
In questo momento, pur accorgendoci di non seguire il miglior percorso di vita possibile, potremmo avere la sensazione che “le cose stanno così e non è possibile (o non è giusto) cambiarle”. Si tratta di uno dei peggiori condizionamenti!
Siamo quindi bloccati nel nostro percorso, come treni lanciati sui propri binari.
Insieme a questa grande intelligenza abbiamo quindi bisogno anche di più consapevolezza, che possiamo sviluppare prima individualmente e poi anche come umanità.
Se sento veramente chi sono, posso anche permettermi di fermarmi e ascoltarmi, di essere in pace e di scegliere liberamente.
I punti iniziali di questo percorso possono essere:
Riconosco che non mi trovo in pieno benessere e/o non seguo una via ottimale (vedi domande sopra).
Ascolto profondamente i miei bisogni (mindfulness, ascolto reciproco, relazione d’aiuto).
Decido di iniziare a mettere in atto piccoli cambiamenti nella mia vita, li comunico a qualcuno che mi vuole bene, oppure li scrivo su un foglio e lo appendo al muro.
Far parte di un gruppo o una comunità con scopi comuni è di grande aiuto, per poter essere più costanti nel percorso di cambiamento e sentirsi appoggiati e sostenuti.
Cambiare o attuare qualcosa di nuovo è sempre un po’ faticoso, ma in questo caso ne vale davvero la pena: agendo in maniera sensata sul nostro equilibrio psicofisico otteniamo un beneficio globale, che si rispecchia in un corpo più pronto e sano, ma anche in una mente più lucida e serena. In questo modo ci predisponiamo anche a migliori relazioni e successo in ciò che desideriamo nella vita.
George Libman Engel (1913-1999), professore di psichiatria e medicina per oltre 50 anni presso l’Università di Rochester (New York), nel 1977 richiamava, in un articolo apparso sulla rivista «Science», alla necessità di un nuovo modello medico (Engel, 1977). L’approccio biomedico, forte delle grandi scoperte e delle conseguenti innovazioni diagnostiche e terapeutiche del XX secolo, si stava concentrando sul corpo del paziente, lasciando volontariamente problemi e bisogni di tipo psicologico e sociale allo studio e alla cura di altre discipline.
Il medico, secondo questo approccio, doveva concentrarsi sulle malattie “reali”, quelle che si possono riscontrare attraverso segni, sintomi, esami di laboratorio e strumentali.
La psichiatria, nata come specialità della medicina che si occupa delle patologie mentali, si stava dividendo in due branche, almeno all’apparenza opposte: l’una che seguiva il nuovo modello biomedico, l’altra che procedeva distaccandosene completamente. La branca biomedica della psichiatria vedeva le malattie mentali come conseguenza di alterazioni patologiche delle funzioni del sistema nervoso centrale e quindi curava con farmaci, atti chirurgici, o altri interventi strumentali come l’elettroshock.
Engel, che era internista e psichiatra, annunciava «una crisi di tutta la medicina», a causa della «aderenza ad un modello centrato sulla malattia che non è più adeguato ai compiti scientifici ed alle responsabilità sociali sia della medicina che della psichiatria» (Engel, 1977).
Dichiarava inoltre:
«La crisi della medicina deriva dall’inferenza logica che porta a definire la “malattia” solo in termini di parametri somatici, cosicché i medici non sono tenuti ad occuparsi delle istanze psicosociali in quanto queste ricadrebbero al di fuori della responsabilità e dell’autorità della medicina».
Engel aveva iniziato a interessarsi alla medicina psicosomatica nel 1941, producendo negli anni successivi molti lavori riguardanti la psicosomatica, lo sviluppo psicologico e l’integrazione mente-corpo. Fu solo nel sopraccitato articolo del 1977 che propose alla comunità scientifica e medica un nuovo modello chiamato biopsicosociale, ovvero un approccio che, oltre agli aspetti biologici delle malattie, comprendesse anche quelli psicologico-comportamentali e quelli socio-relazionali.
Il modello biomedico e i suoi limiti
La biomedicina è diventata, nella cultura occidentale, non solo una base per lo studio scientifico della malattia, ma anche la specifica prospettiva culturale del concetto stesso di malattia. Secondo Engel:
«Il modello biomedico è così diventato un imperativo culturale e le sue limitazioni sono state semplicisticamente trascurate. In breve, il modello ora ha acquisito lo status di dogma».
(Engel, 1977)
La necessità di spiegare in termini scientifici le alterazioni somatiche, comportamentali e sociali dei malati ha portato progressivamente a considerare il corpo completamente distinto dalla mente. Inoltre l’organismo sarebbe una macchina scomponibile in parti isolabili, da cui l’assunto che l’intero possa essere compreso, sia materialmente che concettualmente, ricostruendone le parti costituenti. La mente, insieme ai processi psicologici e sociali, non farebbe parte del campo applicativo della medicina, anche perché non studiabile attraverso il paradigma biomedico.
Le patologie vengono spiegate attraverso alterazioni misurabili di variabili somatiche e sono correlate principalmente a cause fisiche. Viene applicato un principio di causalità lineare e si mira a trovare una causa primaria delle patologie, anche attraverso la scomposizione dell’individuo in parti sempre più piccole (come nella medicina genetica e molecolare) (Baldoni, 2010). In questo modello medico si parla di cause delle malattie, di cofattori e di condizioni predisponenti legati tra loro da relazioni di causa-effetto.
Da questi presupposti è nata la nosografia moderna, che classifica le malattie secondo la sede anatomica o istologica, quindi le alterazioni anatomo-patologiche o biochimiche e la fisiopatologia (Federspil, 1993). La malattia è quindi diventata un’entità discreta, con precisi criteri diagnostici, non definibile in assenza di perturbazioni a livello biochimico o istologico.
Un riduzionismo insensato
Lo sviluppo di conoscenze in questo campo ha portato a un enorme avanzamento nello studio del corpo umano, quindi dell’anatomia, della fisiologia e degli aspetti organici della patogenesi delle malattie, ma ha indirizzato la ricerca medica verso una scomposizione sempre più minuziosa delle varie componenti, formando specialisti sempre più attenti alla singola parte piuttosto che al tutto.
Halsted R. Holman
Questo modello di stampo riduzionista ha consentito quindi importanti progressi in medicina, ma i suoi limiti sono legati sia ad aspetti diagnostico-valutativi che, conseguentemente, ad aspetti terapeutici.
Halsted R. Holman, professore di Medicina presso l’Università di Stanford, ha criticato fortemente il riduzionismo, sottolineandone i limiti e l’inadeguatezza della formazione medica. Citato da Engel (1977), affermava:
«Sebbene il riduzionismo sia uno strumento di comprensione potente, crea anche profondi fraintendimenti quando viene applicato in modo insensato. Il riduzionismo è particolarmente pericoloso quando giunge a negare l’impatto di condizioni non biologiche sui processi biologici. […] Alcuni risultati dei trattamenti medici sono inadeguati, non a causa della mancanza di appropriate tecniche d’intervento, ma perché il nostro modo di pensare è inadeguato».
Genetica e ambiente
Una malattia come il diabete mellito, se è considerata esclusivamente dovuta a deficit relativo di insulina, viene trattata con il reintegro esogeno di questo ormone (ed altri interventi collaterali finalizzati alla stessa funzione), mirando a correggere l’alterazione biochimica di base (la glicemia), considerando il trattamento efficace se questa rientra in limiti prestabiliti e se a lungo termine vengono ridotte le complicanze microvascolari, macrovascolari e neurologiche.
Vi sono anche altri fattori che incidono sulle manifestazioni e sull’evoluzione delle malattie, altrimenti non sarebbe presente la ben nota variabilità individuale. Su quest’ultimo aspetto la biomedicina si concentra su variabili genetiche e ambientali, talvolta non ben definite, quindi poco utilizzabili al di fuori di considerazioni statistiche.
Per poter studiare il peso dell’ambiente e della genetica su una determinata patologia, vengono spesso prese in considerazione coppie di gemelli omozigoti. Barnett, Eff, Leslie, e Pyke, per esempio, nel 1981 hanno studiato 200 coppie di gemelli identici, identificando una forte concordanza nello sviluppo del diabete mellito tipo 2 (praticamente del 100% nell’arco della vita), attribuendogli così una forte predisposizione genetica (Barnett et al., 1981). In studi come questo viene supposto che da uno stesso DNA debba esserci la medesima predisposizione alla malattia, quindi il fatto di svilupparla o meno, deve necessariamente essere determinato dall’ambiente. Secondo i dati dello studio sopraccitato, nel caso del diabete mellito tipo 2 (DM2), l’ambiente avrebbe un peso solo sull’età di comparsa delle alterazioni legate alla malattia, perché se un gemello risultava portatore di diabete, anche l’altro prima o poi lo avrebbe sviluppato. Se ne concludeva che la predisposizione genetica era molto forte.
Secondo questo modo di interpretare la patogenesi delle malattie, esistono quindi fattori genetici predisponenti, ai quali viene dato forte risalto rispetto a tutto il resto che viene genericamente definito “ambiente”. Sotto il cappello “ambiente” compaiono il contesto sociale e culturale, lo stile di vita, e tutto un insieme di fattori intrinseci all’esistenza della persona come per esempio i traumi psicologici. Quando viene proposta la correlazione tra questi singoli fattori e l’incidenza di una malattia, si parla di patogenesi multifattoriale, ampliando da un lato la prospettiva, ma restando fermamente legati ad un approccio riduzionista e determinista. Non vengono in genere considerati fattori più strettamente psicologici, come la personalità, il comportamento di malattia e i disturbi mentali. Tutti elementi che vengono confinati a studi in ambito psicologico o psichiatrico.
Dal punto di vista terapeutico, i fattori ambientali, ad eccezione dello stile di vita, non vengono generalmente presi in considerazione e acquisiscono di conseguenza una sembianza di immodificabilità. Si punta piuttosto a «studiare le basi molecolari delle alterazioni precoci, e sviluppare terapie mirate contro di esse» (Leahy, 2005), giusto per citare uno dei tanti articoli scientifici che si rifanno strettamente al modello biomedico.
Predisposizione genetica o regolazione genetica?
Ad oltre 30 anni dallo studio di Barnett, l’avanzamento delle tecniche e delle conoscenze nel campo della genetica molecolare ha consentito di riconoscere l’enorme numero di geni (e dei loro prodotti) che interagiscono nella regolazione del metabolismo (in generale, e più nello specifico di quello glucidico), suggerendo una predisposizione genetica molto complessa per il DM2 (Siddiqui et al., 2013), e allo stesso tempo un difficile, se non impossibile (almeno per ora) calcolo a priori del suo peso reale nello sviluppo della malattia.
Oggi sappiamo che il DNA non è un contenitore di informazioni rigido come una lastra da stampa che determina copie di un libro sempre uguali, ma è un sistema di informazioni plastico, la cui espressione può essere regolata diversamente tra gli individui e nello stesso individuo, attraverso processi epigenetici. Questo con le dovute riserve verso casi con effettive mutazioni grossolane della catena, causa di ben note patologie genetiche. Anche in queste ultime, però, le manifestazioni della patologia e la sua evoluzione possono essere molto differenti tra diversi individui affetti. Il DNA è sicuramente un forte fattore nella determinazione di ciò che siamo e ciò che diventeremo, ma invece di ritenerlo il risultato di una copia stampata, potremmo considerare che questo libro, letto ed interpretato da ciascuno di noi, acquisisce una peculiare espressione, in grado anche di mutare nel tempo.
Fattori biologici, psicologici e sociali in salute e malattia
The BioPsychoSocial model
Il modello BioPsicoSociale
La condizione di malattia non è caratterizzata solamente da valterazioni somatiche. Sono presenti anche aspetti psicologici legati ai sintomi, al ruolo di malato, alla medicalizzazione della vita, così come modificazioni nelle relazioni sociali, nella capacità di lavorare e nell’autonomia. Questi fattori possono a loro volta incidere su evoluzione e prognosi della patologia, attraverso l’interpretazione del problema e le strategie di coping peculiari di ciascun individuo.
Fattori biologici, psicologici e sociali interessano continuamente e in maniera complessa ognuno di noi. Questo avviene in uno stato di salute e completo benessere, e allo stesso modo anche in caso di malattia.
Lo stato di salute dell’individuo, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale (WHO, 1948), visione che si inserisce appieno in un approccio biopsicosociale (in realtà questa definizione ha preceduto il modello proposto da Engel, facendo parte della Costituzione dell’OMS del 1948). La promozione della salute, quindi, non può fermarsi agli aspetti fisici, ma richiede anche una valutazione di quelli sociali e mentali, i quali, come schematizzato in figura, interagiscono tra loro in maniera complessa.
Il modello BioPsicoSocialeSpirituale per un Benessere Globale
Una definizione ancora più ampia (e decisamente più recente) viene dal rapporto 2010 della “Commissione Salute” dell’Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute, che definisce la Salute:
«lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di benessere, che consente alle persone di raggiungere e mantenere il proprio potenziale personale nella società».
BioPsychoSocialSpiritual model for a Whole Wellness
Modello BioPsicoSocioSpirituale per un Benessere Globale
Si può parlare quindi di un modello BioPsicoSocioSpirituale. Questo apre ad una visione olistica della persona, in salute e in malattia, che tratterò in un prossimo articolo. Non si parla più di “salute”, ma di “benessere globale”, perché quest’ultimo non è solo l’assenza di malattia, ma un concetto che richiama a qualcosa che possiamo sempre migliorare.
Esperienze precoci
Variabili psicologiche e sociali interessano l’individuo sin dall’infanzia, a partire dalla sua prima relazione, quella con la madre, considerata la più importante nello sviluppo.
La relazione madre-bambino è in grado di influenzare i futuri comportamenti della persona, quindi anche i suoi rapporti interpersonali e sociali. Questo forte legame inizia già durante la gravidanza, e per certi aspetti sin dal concepimento (Baldoni, 2010; Engel, 1962). C’è un ovvio rapporto biologico tra i due e questo già di per sé è una relazione, che inizia con segnali puramente umorali, ma poi si intensifica con lo sviluppo degli organi sensoriali e motori del feto. La voce e i movimenti materni, come le variazioni nelle concentrazioni ematiche di fattori neuro-ormonali, inviano segnali al concepito, il quale può manifestare la sua presenza in seguito allo sviluppo del sistema motorio. Così i movimenti intrauterini del feto possono scatenare intense reazioni emotive nella madre, con risposte che egli progressivamente può percepire. Se da un lato l’apparato psichico fetale è sicuramente ancora poco sviluppato, dall’altro è in piena maturazione, e questa può essere influenzata dalla relazione con la madre.
Studi sull’attaccamento familiare hanno dimostrato anche un’importante influenza del padre sulla relazione madre-bambino e lo sviluppo psicosomatico del figlio sin dal momento del concepimento (Baldoni e Ceccarelli, 2010).
Considerare quindi il momento del parto come il “punto zero” della vita, rappresenta una limitazione alla comprensione dello sviluppo psicosomatico dell’individuo. Gemelli separati alla nascita hanno condiviso, oltre che il patrimonio genetico, almeno la vita intrauterina e la concomitante relazione con la madre. Gemelli rimasti nella famiglia di origine per tutta l’infanzia sono ancora più legati da fattori psicosociali e relazionali, considerando inoltre che hanno vissuto le stesse situazioni negli stessi momenti dello sviluppo, cosa che non accade per esempio in fratelli di età diverse.
Baldoni, F. (2010). La prospettiva psicosomatica. Bologna: Il Mulino.
Baldoni, F., e Ceccarelli, L. (2010). La depressione perinatale paterna. Una rassegna della ricerca clinica ed empirica. Infanzia e adolescenza, 9(2), 79–92.
Barnett, A. H., Eff, C., Leslie, R. D., e Pyke, D. A. (1981). Diabetes in identical twins. A study of 200 pairs. Diabetologia, 20(2), 87–93.
Engel, G. L. (1962). Medicina psicosomatica e sviluppo psicologico (trad. it.). Bologna: Nuova casa editrice L. Cappelli spa, 1981.
Engel, G. L. (1977). The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science, 196(4286), 129–136.
Federspil, G. (1993). Voce «Nosografia» – Enciclopedia Italiana – V appendice (1993). Treccani.
Leahy, J. L. (2005). Pathogenesis of type 2 diabetes mellitus. Archives of medical research, 36(3), 197–209.
Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute – Rapporto 2010 della “Commissione Salute”.
Siddiqui, A. A., Siddiqui, S. A., Ahmad, S., Siddiqui, S., Ahsan, I., e Sahu, K. (2013). Diabetes: Mechanism, Pathophysiology and Management – A review. Int. J. Drug Dev. & Res., 5(2), 1–23.
WHO. (1948). Preamble to the Constitution of the World Health Organization as adopted by the International Health Conference, New York, 19-22 June, 1946; signed on 22 July 1946 by the representatives of 61 States and entered into force on 7 April 1948. New York.
Considerare l’essere umano sotto il profilo psicosomatico significa vederlo come una unità, formata da psiche, corpo, relazioni sociali e spiritualità. Per prendersene cura bisogna quindi curare tutte le sue componenti, ovvero curare la persona piuttosto che la sua malattia o i suoi sintomi.
Ogni sintomo fisico ha un riscontro psichico, e un ascolto attento permette di comprendere come non sono uno la causa dell’altro, ma segni di un insieme che ha perso la sua armonia, in altre parole è venuta a mancare l’integrazione delle sue componenti.
Quando percepiamo dolore in un’area corporea viviamo un’esperienza sensoriale spiacevole, che porta ad un vissuto emotivo dalle sfumature più diverse, spesso caratterizzato da tensione, preoccupazione, svalutazione, ma che può diventare anche rabbia, paura, ecc. La colorazione emotiva del sintomo è del tutto soggettiva e legata allo specifico contesto in cui viene provato. Il significato che abbiamo imparato a dare alle nostre sensazioni corporee e alle nostre emozioni dipende largamente dal rapporto con le figure di riferimento dell’infanzia, particolarmente da quello con nostra madre.
Come possiamo quindi agire terapeuticamente considerando tutto questo? Uno dei primi passi è il riconoscimento di ciò che proviamo a livello corporeo. Per poterlo fare è necessario uno spazio di ascolto e consapevolezza sufficientemente profondo. In questo spazio è possibile ottenere una progressiva integrazione delle componenti dell’individuo, il cui rapporto era stato fratturato da un’esperienza traumatica.
Di seguito riporto un accenno alle principali tecniche psicosomatiche che utilizzo. Si tratta, nella maggior parte dei casi e più in generale nel loro utilizzo d’insieme, di tecniche dalla comprovata efficacia e senza effetti collaterali. Vi sono numerosissimi studi scientifici, in particolare sulla mindfulness, che riportano miglioramenti dell’ansia, della depressione, dei sintomi fisici cronici, delle tensioni, dei pensieri ossessivi, degli attacchi di panico, del senso di appartenenza alla società, delle relazioni, della gestione delle emozioni, del rendimento scolastico o lavorativo, della capacità di concentrazione e attenzione, dell’empatia, dell’intelligenza emozionale, ecc.
La tecnica base è la Mindfulness psicosomaticache consente di entrare in uno spazio di consapevolezza più profondo, attraverso l’ascolto del respiro nelle varie parti del corpo e in tutto il corpo insieme. Questo particolare stato corrisponde a evidenze scientifiche riguardanti la sincronizzazione dell’attività delle varie aree del cervello, riduzione dell’attività cerebrale ad alta frequenza (onde beta, corrispondente al pensiero e all’autocontrollo), aumento dell’attività a bassa frequenza (onde alfa, theta, delta). Il respiro è il principale strumento della psicosomatica: rivitalizza il corpo, scioglie le emozioni bloccate, apre la mente e risveglia la coscienza. Sin dall’antichità l’equilibrio psicosomatico e spirituale è stato associato al “respiro globale”.
Il Body-scan psicosomatico è la tecnica che porta a sviluppare prima una maggior sensibilità corporea, poi anche quella più sottile, che potremmo definire energetica. Si tratta di una esplorazione corporea effettuata attraverso la focalizzazione dell’attenzione e del respiro, mentre ci si trova in stato di consapevolezza profonda. Questo porta a riconoscere e imparare ad esprimere il proprio percepito attraverso forme, colori, e altre caratteristiche.
Il Disegno psicosomatico è una modalità espressiva di traduzione delle sensazioni in immagine disegnata su carta. La persona trova così il modo di “fotografare” il suo attuale stato di consapevolezza corporea.
Gli esercizi di energetica stimolano la consapevolezza corporea anche attraverso il movimento. La piacevolezza del movimento delle tecniche “dolci” aiuta a riscoprire l’armonia del corpo nella sua interezza, mentre la decisione delle tecniche “forti” irrobustisce il senso di presenza, forza e sicurezza della persona.
L’uso della voce permette in maniera semplice di riconoscere e stimolare varie aree corporee, dalla pancia, al torace, alla gola, alla testa, al corpo intero.
Il massaggio olistico consente di migliorare la percezione di aree corporee bloccate, di liberarne le tensioni e facilitarne il ripristino del flusso energetico.
Il “Progetto Gaia – Benessere Globale” è un programma di promozione della salute psicofisica promosso dalla APS Villaggio Globale di Bagni di Lucca che, partendo dalla “consapevolezza di se stessi” e da semplici tecniche psicosomatiche, può migliorare lo stress, l’ansia e la depressione, aiutando a rispondere alle sfide di questo momento critico di transizione verso una società globalizzata. Il “Progetto Gaia” è nato per essere applicato nelle scuole, mentre il “Progetto Benessere Globale” è pensato per il lavoro con gli adulti in sedi extrascolastiche, ma condividono le finalità anche se con diversi adattamenti specifici.
Le finalità educative di questi progetti sono di trasmettere delle conoscenze e delle pratiche che, partendo dall’esperienza della “consapevolezza psicosomatica”, possano sviluppare una differente percezione di se stessi e della relazione con gli altri sviluppando benessere, pace interiore e sociale, e consapevolezza di Sé. Alla base di questo progetto ci sono i valori etici, le basi scientifiche, mediche, psicologiche e culturali, avanzate negli ultimi decenni da scienziati e pensatori, di ogni cultura per sviluppare nelle persone una consapevolezza più adatta ai bisogni e le sfide di questo momento critico di transizione verso una società globalizzata.
Obiettivi del Progetto Gaia – Benessere Globale
Sviluppare una maggiore consapevolezza psicosomatica di Sé (corpo ed emozioni)
Migliorare il benessere psicofisico riducendo lo stress, l’ansia e la depressione
Migliorare il rendimento scolastico/lavorativo e l’attenzione, riducendo l’irrequietezza e la tensione
Gestione delle emozioni e contenimento della reattività e degli impulsi (autoregolazione)
Migliorare il clima, la condivisione e la cooperazione di gruppo (classe o team)
Offrire una base di informazioni etiche, scientifiche e culturali per una cittadinanza globale
Educazione alla sostenibilità e ai diritti umani per una cittadinanza globale (UNESCO)
Destinatari del Progetto
Bambini (dalla scuola d’infanzia in poi) e ragazzi in ambito scolastico o extra-scolastico
Adulti in ambiti aggregativi, team di lavoro, strutture residenziali, ecc.
Particolare attenzione è rivolta a persone disagiate e a rischio
Insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado (formazione)
Il dott. Pier Luigi Masini, avendo conseguito la formazione specifica, è un conduttore di gruppi benessere basati su questo metodo e propone il percorso in modo completamente gratuito.
Per richiedere informazioni andare alla pagina Contatti, oppure per conoscere l’organizzazione dei prossimi gruppi consultare la sezione Eventi.
Nella rimozione di un auto da parte del carro attrezzi la vettura sembra non essere più presente, in realtà è solo stata spostata in un luogo che non conosciamo, dove non la vediamo. Allo stesso modo i meccanismi di difesa psicosomatica spostano i vissuti nel nostro inconscio e non ci fanno sentire le sensazioni corporee ad essi associati.
Registriamo tutto ciò che viviamo, lo elaboriamo più o meno efficacemente, ne traiamo insegnamento e ne siamo condizionati. Eppure spesso non ricordiamo ciò che ci è successo, non ne sentiamo i condizionamenti e nemmeno le emozioni associate. Talvolta non sentiamo le emozioni mentre ci succede qualcosa che ci dovrebbe toccare nel profondo.
Il processo di rimozione ci consente di allontanare dalla coscienza dei vissuti spiacevoli, al fine di non sentirne il peso e di non viverne continuamente le emozioni associate. In realtà i vissuti restano in uno spazio inconscio di noi stessi, e si manifestano all’esterno attraverso il corpo. Ad esempio la postura di una persona, le sue espressioni, i suoi sintomi, il suo modo di respirare, le sue modalità espressive, la temperatura e il colore della sua pelle nelle varie zone corporee, sono segni esteriori delle sue esperienze passate, che si sono condensate nel suo carattere, nella sua personalità, e nel suo funzionamento psicosomatico. Esistono anche segni interni che il medico può valutare attraverso l’esame obiettivo corporeo, esami di laboratorio, o esami strumentali. Queste manifestazioni possono essere chiamate anche blocchi psicosomatici.
E’ solo psicologia? No, anche le manifestazioni corporee dei blocchi psicosomatici possono essere rimossi. Si tratta di un livello più profondo di rimozione, che mette maggiormente a rischio la nostra salute, perché perdiamo completamente la percezione di ciò che ci sta accadendo.
Entrando in uno stato di consapevolezza più profondo possiamo tornare in contatto con i vissuti rimossi. Questa pratica consente di far riemergere ricordi, emozioni e sensazioni, di rielaborarli, di dar loro nuovo significato in base al vissuto presente, e di farli tornare nella memoria liberati del loro valore emotivo. In questo modo, oltre a prendere consapevolezza di quanto quel ricordo potesse influenzarci, comprendiamo meglio anche il nostro funzionamento psicosomatico.
In realtà non si tratta di soli vissuti negativi o dolorosi. Alcune persone tendono a “dimenticarsi” (o a non vivere pienamente) anche le esperienze positive, come quelle legate alla gioia o al piacere di esistere. Riuscire a riprendere contatto con queste esperienze è una delle modalità per iniziare a vivere più positivamente.
Prendere consapevolezza di questi blocchi è il primo passo per superarli e dirigerci verso una salute più prospera e piena!
E’ possibile prevenire le malattie? Sono davvero scritte nel nostro codice genetico?
Sempre più spesso si parla di predisposizione genetica alle malattie. Addirittura esistono test genetici che indicano quali potrebbero essere le patologie cui andremo incontro più probabilmente nella vita.
Molte condizioni vengono definite “malattie predisposte geneticamente”, ovvero stati patologici che si manifestano solo da un certo punto della vita in poi, come ad esempio il diabete mellito, i tumori e le malattie cardiovascolari. E’ riconosciuto che tali manifestazioni si presentano solo in compresenza di altri fattori (es. un certo stile di vita, la dieta, altre patologie, ecc.). Su questi ultimi abbiamo la possibilità di agire in modo consapevole.
Il codice genetico (DNA) non è così rigido come si pensa, ma è sottoposto a continue regolazioni (funzione epigenetica), che dipendono da svariati fattori legati alla nostra vita. Quindi anche una predisposizione genetica può essere mantenuta silente e perdere il suo significato.
Il primo principio è senza dubbio quello di una vita sana, equilibrata, dinamica, il più possibile gioiosa e giocosa. E’ ben dimostrato che tutto questo contribuisce a un’adeguata regolazione del sistema neuroendocrino, del sistema immunitario e, ovviamente, del nostro equilibrio psichico. Questo significa puntare al “Benessere Globale“, concetto che approfondirò in altre pagine di questo sito.
Per capire se ti trovi su questa strada puoi chiederti:
Reputo la mia vita “sana” in generale?
Ho qualche fattore di squilibrio (alimentazione, sedentarietà, comportamenti rischiosi, utilizzo di sostanze, ecc.)?
Mi muovo fisicamente abbastanza e in modo piacevole?
Mi sento gioioso per la maggior parte del mio tempo? Ho voglia di giocare, scherzare, divertirmi?
Coltivo relazioni importanti e le mantengo nel tempo?
Ascolto i miei bisogni fisici e psichici? Mi concedo adeguati riposo, rilassamento ed espressione?
Insomma, cercare di vivere in ascolto di noi stessi, puntando alla vera felicità, è la miglior prevenzione!
In un precedente articolo (vedi qui) ho espresso il mio pensiero riguardante una “alimentazione terapeutica”, che non riguarda solo il cibo, ma molti altri elementi e aspetti vitali della nostra esistenza.
Senza addentrarmi nello specifico delle varie condizioni patologiche (o particolari) in cui possiamo trovarci, per le quali è necessaria una opportuna modificazione della dieta, ritengo fondamentali alcuni elementi legati ad una corretta alimentazione.
Alimentarsi col cibo è un atto d’amore verso se stessi, è un fondamentale momento della nostra vita. Oltre ad alimentare il nostro corpo nutriamo allo stesso tempo anche la nostra mente. Infatti l’intestino è dotato di un complicato sistema nervoso, e scambia continuamente segnali col cervello, tanto da essere considerato “il secondo cervello”. Quante volte ci accorgiamo che mangiare, soprattutto certi cibi, modifica il nostro umore e il nostro senso di appagamento!
Siamo giustamente attenti a cosa mangiamo, ma ritengo sia altrettanto importante curarci di come mangiamo.
Una corretta alimentazione (vedi i punti che seguono) consente di stare meglio sotto tutti i punti di vista: sentirsi più appagati, aumentare l’autostima, sentirsi più “leggeri”, avere più sicurezza riguardo alla salute del nostro organismo, e tanto altro.
Mangiare con serenità. Il momento del pasto è sacro. Se vissuto in serenità e piacevolezza, permette di sentirsi uniti e in armonia con gli altri. Non a caso la maggior parte delle persone quando vuole incontrarsi lo fa in occasione di colazione, pranzo o cena. In famiglia spesso le discussioni più importanti vengono fatte a tavola, rovinando questa preziosa occasione. Possiamo invece imparare a vivere il pasto come un gioioso momento di fraternità, posticipando la trattazione delle problematiche più difficili.
Acquistare cibi sani e naturali e cucinarli adeguatamente. I cibi migliori sono quelli delle zone in cui viviamo, di stagione e biologici. Mangiare cibi crudi, oppure prepararli con metodi di cottura che li alterano il meno possibile (al dente, bolliti) sono i più adatti a mantenere le importanti sostanze presenti nelle materie prime (vitamine, proteine, ecc.) e a favorire digestione e assorbimento. Cibi locali consentono anche di mantenere intatta la popolazione batterica intestinale, che è fondamentale per un corretto funzionamento dell’apparato intestinale, quindi per la digestione, e per l’equilibrio del sistema immunitario.
Apprezzare il cibo. Il cibo non è solo sostanza da ingerire, va assaporato, gustato e apprezzato. Anche per questo è importante mangiare cibi più naturali possibile cucinati con metodi adeguati: li apprezzeremo sicuramente di più!
Mangiare lentamente. Consente di assaporare meglio il cibo, di elaborarlo più efficacemente migliorando i processi digestivi, e di ottenere prima la sazietà.
Evitare eccessi e carenze. Mangiare un po’ di tutto, dando priorità a frutta, verdura, legumi e carboidrati complessi (pane, pasta, riso, cereali). Limitare le carni, soprattutto rosse, i dolci, gli alcolici e il caffè. E’ molto importante imparare a cucinare piatti vegetariani che siano anche stuzzicanti (altrimenti si rischia di rifarsi sempre il palato con la carne e i dolci). E’ importante prendere in considerazione anche una riduzione dell’uso del sale e dello zucchero.
Mantenere orari fissi per i pasti. Evitare digiuni prolungati o forti alterazioni negli orari e nei ritmi dei pasti. Se non è possibile farlo (per esempio a causa di turni di lavoro incompatibili) portare con sé almeno degli spuntini.
Non dimenticare l’acqua. Evitare di bere troppa acqua (o altri liquidi) ai pasti, ma soprattutto ricordarsi di bere durante il giorno. Non c’è una quantità ideale valida per tutti, ma non si dovrebbe mai raggiungere il senso della sete, o ancor peggio non prenderlo in considerazione. Consiglio sempre, a chi non beve spontaneamente, di portare con sé una bottiglietta d’acqua e sorseggiarla di tanto in tanto.
Perché la foto di questa farfalla? Questa bellissima creatura è semplicemente sé stessa, non pretende altro. Nella sua coda manca un pezzetto (nota che non è simmetrica, a destra è mozzata): anche questa è una sua caratteristica, che la rende unica, ed è specchio del suo passato, che evidentemente è stato traumatico. Non per questo ha perso la sua natura, continua a vivere nella libertà. Quando riconosciamo la meraviglia di cui siamo fatti, ma anche le difficoltà che ci hanno plasmato, possiamo amarci semplicemente così come siamo.
Tutto ciò che esiste è in relazione col resto dell’Universo, la relazione è in grado di plasmare, e quando crea è amore. Siamo quindi fatti d’amore e pertanto il nostro scopo è essere felici, ma per essere felici dobbiamo essere liberi.
Essere liberi significa poter esprimere totalmente la nostra indole, il nostro spirito interiore, la nostra verità. La paura di sbagliare, essere giudicati o puniti sono tutti ostacoli che sopprimono ciò di cui siamo fatti: l’amore.
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12,31): per amare il prossimo è necessario che prima impari ad amare te stesso! Non puoi amarti se non sei libero, se non sei nella verità. Infatti “la verità vi farà liberi” (Gv 8,32).
Quando non siamo liberi, veri, e quindi felici, abbiamo sentimenti contrastanti, non riconosciamo noi stessi. In questo soffocamento interiore iniziamo a vivere emozioni negative, che si esprimono nella mente tanto quanto nel corpo. I sintomi di tutto questo diventano un malessere più o meno localizzato, ma spesso generalizzato. Il nostro essere non si esprime più come vorrebbe e a livello psichico insorgono depressione, ansia, conflitto, paura, chiusura e stanchezza. Quella parte bloccata della nostra interiorità si rispecchia in un blocco più corporeo, che a lungo andare può diventare vera e propria malattia.
Per una Medicina della Persona, nella ricerca della Verità