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Il bambino e il gigante (una storia vera, purtroppo)

C’era una volta un bellissimo bambino, nato da due giovani ragazzi inglesi che lo amavano ed erano molto felici che fosse entrato nelle loro vite.

Il piccolo si chiamava Charlie e nel primo mese di vita stava bene, era assolutamente come tutti gli altri: succhiava latte, stava in braccio ai suoi genitori, ogni tanto strillava, faceva popò e dormiva beato nella sua culla. Parenti e amici accorrevano, come accade in genere in questi casi, per vedere il neonato, complimentarsi con i genitori, e portare regali.

Dopo circa un mese, però, mamma e papà cominciarono ad accorgersi che i movimenti di Charlie erano un po’ rallentati e ridotti, e progressivamente il piccolo diventava sempre meno reattivo. Nel mese successivo Charlie iniziò ad accusare anche difficoltà respiratorie, in quanto i muscoli preposti a questa attività avevano perso forza.

Il piccolo venne ricoverato presso il Great Ormond Street Hospital di Londra e venne sottoposto a ventilazione meccanica che sostituiva la sua respirazione inefficace. Furono necessari anche interventi appropriati per garantirgli una nutrizione adeguata, perché non era più in grado nemmeno di succhiare e quindi di alimentarsi e idratarsi.

Charlie e i suoi genitori si stavano affidando ad un gigante, all’apparenza buono e premuroso, che doveva prendersi cura di loro ed aiutarli con la sua potenza nella difficile avventura che stavano intraprendendo.

Gli accertamenti del caso portarono a una diagnosi tremenda: Charlie era affetto da una rarissima malattia genetica (una forma di deplezione del DNA mitocondriale). I suoi mitocondri non producevano energia in modo adeguato, i muscoli non avevano più forza, il sistema nervoso era sempre più rallentato e verosimilmente Charlie non poteva già più vedere ne sentire. I medici dell’ospedale affermarono che non esistevano cure ed il piccolo era destinato a spegnersi.

A quel punto i genitori, distrutti dal dolore, ma ancora appesi al filo della speranza, cercarono autonomamente se c’erano altri centri nel mondo che potevano curare quella malattia. Trovarono allora la possibilità di tentare una cura sperimentale negli Stati Uniti, ma di altissimo costo, inaffrontabile per una famiglia. Con la costituzione di una fondazione e l’aiuto di migliaia di persone riuscirono a raccogliere i fondi necessari, ma dall’ospedale arrivò un netto «no»: quella terapia, come qualsiasi altra conosciuta, non avrebbe avuto alcuna efficacia su Charlie ed anche le cure attuali andavano sospese perché prolungavano inutilmente una vita senza speranze.

Il gigante iniziava a battere i pugni sul tavolo e pretendeva di decidere le sorti del bimbo.

Allora i genitori si appellarono ad un tribunale, passando tre livelli di giudizio, ed infine alla Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, ma non ci fu nulla da fare. Le istituzioni diedero ragione ai medici dell’ospedale e il verdetto divenne definitivo: i genitori non avevano il diritto di trasferire il proprio figlio dove desideravano che fosse curato e il supporto a respirazione, idratazione ed alimentazione andava sospeso.

Il gigante si stava imponendo con tutta la sua arroganza e prepotenza, ma i genitori continuavano a sperare, mentre le notizie facevano il giro del mondo e manifestanti in piazza elevavano cartelli a favore della loro causa.

Un gruppo di specialisti internazionali prese a cuore la situazione e, valutato il caso, redasse un documento, inviato poi all’ospedale dove era ricoverato il bimbo, in cui si affermava che erano disponibili cure sperimentali adatte alla situazione di Charlie. Nessuna certezza e poche speranze, ma perché non tentare?

Il giudice si mostrò disponibile a rivedere la propria sentenza, purché ci fosse l’evidenza che la cura proposta potesse raggiungere il cervello, che questo non fosse già irrimediabilmente danneggiato, e che ci fossero miglioramenti adeguati.

Erano, però, passati già diversi mesi e Charlie continuava a peggiorare. I suoi muscoli, ma soprattutto il suo cervello, stavano soffrendo molto e ormai danni irreversibili erano sopravvenuti. Per questo, quando stava per arrivare il responso del giudice, i genitori decisero di mollare la presa, rinunciando alla battaglia legale e chiedendo di poterlo portare a casa per qualche giorno, dove sarebbero poi cessate le cure. Venne negata anche quest’ultima richiesta.

Il bimbo fu allora trasferito in una clinica privata, dove venne “staccata la spina” con successivo decesso il 28 luglio 2017.

“Siamo orgogliosi di te” tra le ultime parole dei genitori per il loro bambino.

Il gigante aveva vinto. Sul buon senso, sull’amore e la speranza di questi genitori, sulla tutela della vita.

Questa è, in breve e un po’ romanzata, la storia del piccolo Charlie Gard, che avrebbe compiuto un anno il 4 agosto.

Una delle particolarità di questa vicenda sta nel fatto che le istituzioni (ovvero i medici dell’ospedale assecondati dal tribunale) si sono imposte per cessare delle cure vitali. Si tratta di un abuso nei confronti del piccolo, che nel momento in cui venne presa la decisione non mostrava segni di sofferenza psicofisica o danni cerebrali irreversibili. Che fretta c’era? Bisognava assolutamente staccare la spina? Perché non assecondare i desideri di vita e speranza di questi genitori?

In questo caso si configura un abbandono terapeutico: una cessazione prematura di cure in un paziente che forse avrebbe anche avuto qualche possibilità di essere curato per la sua patologia. Ciò che stava ricevendo è un diritto di tutti: aria, cibo e acqua. Non era in procinto di morire, non c’era evidenza di una sofferenza insopportabile, quindi nessun accanimento terapeutico era in atto. Se la morte fosse poi avvenuta spontaneamente, e dopo quanto tempo, non ci è dato di saperlo.

Ci sono bambini che hanno vissuto anni (e continuano a vivere) con patologie anche molto gravi, magari con forti limitazioni, ma nell’amore dei loro genitori e delle loro famiglie. Tante esperienze dimostrano che questo va ben oltre la patologia e l’handicap, quindi non è giusto valutare dall’esterno se quella vita è dignitosa o meno.

La Vita decide da sé quando terminare, sospendere cure vitali equivale a sopprimerla. In gergo questo viene chiamato eutanasia passiva.

Nel caso di Charlie si è deciso che la sua vita non era dignitosa. La soluzione, contro il parere dei genitori (che sostituiva quello del diretto interessato, incapace di esprimersi), è stata quella di lasciare Charlie senza cure condannandolo a morire prematuramente nel nome di una falsa pietà nei suoi confronti (“nel miglior interesse del bambino”).

Non è per nulla chiaro come venisse valutata la sofferenza del bimbo: se fosse stata evidente sarebbe stato opportuno procedere con terapie antalgiche. In questo caso sarebbe stato accettabile anche accelerare involontariamente la morte cercando di evitare al piccolo forti sofferenze.

E’ doveroso ammettere che si trattava di una condizione limite, ma non certo esclusiva del caso. Il bimbo era già stato “salvato” dalla morte, in quanto questa sarebbe sopravvenuta naturalmente per insufficienza respiratoria già a circa un mese di vita. Anche in assenza di cure (ammettendo che quelle proposte potessero fare qualcosa) non sarebbe moralmente ammissibile sospendere la respirazione e la nutrizione artificiali, in quanto non sono considerabili “inutili cure mediche”. Tanto più quando il paziente (o i genitori, come in questo caso) chiede che le cure stesse vengano continuate.

Abbiamo tutti conosciuto il caso di DJ Fabo e quello di Piergiorgio Welby, entrambi mantenuti in vita da respiratori artificiali: erano loro stessi a chiedere di sospendere le cure, ma non potevano farlo autonomamente. Nel caso di Charlie era l’opposto: veniva chiesto di continuare a vivere! Lo stesso vale per le tantissime persone che sopravvivono grazie a ventilazione o nutrizione artificiali. Per estensione, quando non ci sono cure efficaci per le loro patologie e la sofferenza fosse considerata eccessiva, sarebbe legittimo interrompere queste cure anche nei loro confronti.

Ed infine arriviamo ad un altro punto cruciale della vicenda. Le istituzioni si sono addirittura imposte sostituendosi ai genitori, sospendendo la loro patria potestà, e decretando che non avevano diritto a decidere come e dove curare il proprio figlio, per altro a proprie spese, in una situazione molto delicata in cui il tempo di intervento era potenzialmente vitale, mentre attendere significava accumulare sicuramente danni.

In risposta a questo si sono mossi (anche fisicamente) specialisti internazionali, è stata data la possibilità di accogliere Charlie in ospedali come il Bambin Gesù di Roma, è intervenuto il Papa, il presidente degli USA ha dato disponibilità ad accoglierlo nel suo paese per tentare di curarlo, varie manifestazioni pubbliche si sono susseguite per chiedere di non proseguire in questo sopruso, migliaia di persone hanno firmato petizioni, ma non c’è stato nulla da fare.

Il bimbo era nelle mani del gigante, e questi non voleva più mollarlo, era là che doveva morire. Voleva continuare sulla sua strada, nessuno poteva fermarlo, tanto più al termine della sua corsa, quando aveva già calpestato diritti e speranze del piccolo Charlie e dei suoi genitori. Proprio quel gigante che poteva e doveva proteggere e tutelare la vita, in particolare quella più debole e indifesa.

Chi è il gigante? Sono le istituzioni prodotte da una cultura prepotente, che vorrebbe creare una società composta da individui sani, forti e belli, intollerante verso la sofferenza e la disabilità. Per far questo sono necessarie leggi che consentano di eliminare, meglio al più presto possibile attraverso l’aborto, coloro che non corrispondono ai requisiti richiesti.

Una umanità basata sull’amore non si dimentica di questi suoi figli e li accoglie, si cura di loro, li valorizza. Si adatta ai loro bisogni e fa della diversità un valore. Quante volte sono stato colpito e mi sono sentito cresciuto attraverso il contatto con persone fragili, sofferenti e indifese, quanta umanità mi ha toccato! Allora ho sentito che il senso profondo della vita ha a che fare con quella semplice, ma profondissima, richiesta di amore e di speranza. Una voragine che, incomprensibilmente, sfocia direttamente sull’infinito.


P.S.: Ho basato il racconto e le mie considerazioni sulle informazioni che ho potuto reperire su giornali e internet, purtroppo non propriamente mediche ed evidentemente incomplete. Ritengo, però, che la risonanza della delicata vicenda e la compresenza di posizioni molto diverse espresse da specialisti in campo medico, giuridico e bioetico, alcuni dei quali hanno sicuramente ottenuto tutte le informazioni necessarie per la valutazione (ad esempio i medici dell’ospedale in cui era ricoverato il bimbo e quelli del comitato internazionale che ha proposto le cure sperimentali) lasci realmente aperte molte possibilità interpretative, compresa quella qui proposta.

Malattie genetiche: errori della Natura?

dna-2Per “malattie genetiche” si intendono quelle condizioni patologiche, spesso ereditabili, in cui si riscontra un’alterazione del DNA correlabile alla patologia stessa. Per esempio in una malattia caratterizzata da insufficienza di un enzima la relativa sequenza genetica che la codifica è modificata. In questi casi, se l’organismo non ha modo di compensare il difetto, si manifestano sintomi e segni che nel complesso caratterizzano la patologia. Spesso queste condizioni si riscontrano nelle prime fasi della vita (alcune non sono compatibili con la vita stessa e la morte avviene in utero).

Nell’articolo Vivere meglio è prevenire invece mi riferivo invece a condizioni in cui l’alterazione genetica è solo uno dei fattori che predispone alla malattia.

Le malattie genetiche si determinano nel momento in cui “nasce” il DNA della prima cellula dell’individuo (o nelle primissime divisioni cellulari). Sappiamo che una parte del nostro DNA proviene dalla madre (50% del patrimonio genetico nucleare più quello mitocondriale) e la restante dal padre. Nel corso della meiosi, che è il processo di produzione dei gameti, ovvero degli ovociti e degli spermatozoi, avvengono riarrangiamenti di alcune sequenze geniche, che saranno diverse da quelle dei genitori. L’incontro dei gameti porta ad un nuovo ed unico DNA, che sarà trasmesso a tutte le cellule del nuovo individuo, anche se in questa trasmissione sono possibili variazioni (di solito molto piccole).

Quando da questo processo risulta un individuo portatore di alterazioni genetiche che portano a patologia, si parla di “errore”. Quindi la malattia genetica sarebbe un “errore della natura”. Allo stesso modo sono considerate spesso le malattie comunemente acquisite in età successive.

Io non credo tanto negli errori della natura, penso che là dove non capiamo, dove un processo sembra casuale, ci sia dietro qualcosa che ancora non comprendiamo, ma che una sua logica e intelligenza probabilmente ce l’ha.

Come posso pensare che una malattia sia determinata da un processo logico e intelligente? Non tutto avviene secondo il nostro modo di concepire le cose o le nostre preferenze. Stiamo diventando individui oltre la specie, ognuno di noi si percepisce come se fosse la cosa più importante al mondo, ma le leggi della natura non vanno in questa direzione. L’evoluzione è un fatto, ognuno di noi ha dentro la storia dei suoi antenati, e pensare che siamo come siamo per un casuale processo evolutivo mi sembra alquanto riduttivo e improbabile. Addirittura da questo modo di pensare è nata la teoria secondo cui l’essere umano sarebbe nato da un “errore genetico avvenuto 500 milioni di anni fa”… Io nella Natura ci vedo senso e intelligenza, non casualità ed errori.

Sono convinto che ogni modulazione del nostro organismo sia sensata, al fine di rispondere agli stimoli cui veniamo sottoposti, siano essi di natura fisica, alimentare, o psichica. Quando ingeriamo una sostanza nociva (in generale, o anche solo per noi) in genere la vomitiamo, o ci viene la diarrea, o abbiamo dei sintomi addominali, oppure anche generali. Quando siamo sottoposti ad uno stress intenso (non entro nello specifico per non dilungarmi) possiamo avere gli stessi sintomi.

Quante persone raggiungono il pronto soccorso con sintomi dell’infarto miocardico, o di una appendicite, senza averne la traccia! Anche quando si presentano fisicamente queste malattie è spesso possibile notare, insieme alla persona stessa, che c’è stato un forte e/o prolungato stimolo stressogeno (sempre per essere generici) nella sua vita.

Se questo vissuto avviene durante la produzione dei gameti, cosa accade? Chi lo sa, è difficile dirlo, io penso sia possibile che il processo venga alterato, per cui se verranno concepiti figli da quelle cellule potranno essere portatori di mutazioni genetiche e quindi anche di malattie genetiche.

Non è ovviamente tutto qui, non credo nemmeno che ogni singolo caso sia riferibile a quanto ho appena scritto. Il progressivo aumento di anomalie genetiche con l’età della madre viene riferito a processi di invecchiamento dell’ovocita stesso, infatti la prima fase della meiosi femminile avviene durante la vita intrauterina, dopo di che viene bloccata fino all’ovulazione, che può avvenire per tutta la vita fertile della donna (quindi anche 40 e più anni dopo). Anche l’età paterna più avanzata è correlata a maggiori anomalie genetiche, in questo caso per minor capacità di produrre gameti geneticamente sani (gli spermatozoi vengono prodotti durante tutta la vita fertile dell’uomo).

E’ possibile evitare lo stress, i conflitti, i traumi? No, sono necessari e fanno parte della nostra vita. Ciò che possiamo fare è un percorso di crescita continua, che ci consenta di vivere più in armonia con la natura, in serenità e pace interiore, per poter affrontare lo stress in modo meno traumatico e più efficiente.

E’ fondamentale ricorrere ad azioni e attenzioni che mirano alla prevenzione, come una corretta alimentazione, un sano stile di vita e la ricerca continua di ampliamento delle nostre conoscenze per quanto riguarda ciò che può aiutarci a vivere meglio e più sani, o viceversa può predisporci ad ammalarci.

Da tutto questo non può che derivare un benessere più globale e conseguentemente anche meno malattie, siano esse genetiche o meno.

Ringrazio LB per avermi stimolato a scrivere questo articolo con il suo commento.

L’approccio biopsicosociale in medicina

Le origini

George L. Engel
George L. Engel

George Libman Engel (1913-1999), professore di psichiatria e medicina per oltre 50 anni presso l’Università di Rochester (New York), nel 1977 richiamava, in un articolo apparso sulla rivista «Science», alla necessità di un nuovo modello medico (Engel, 1977). L’approccio biomedico, forte delle grandi scoperte e delle conseguenti innovazioni diagnostiche e terapeutiche del XX secolo, si stava concentrando sul corpo del paziente, lasciando volontariamente problemi e bisogni di tipo psicologico e sociale allo studio e alla cura di altre discipline.

Il medico, secondo questo approccio, doveva concentrarsi sulle malattie “reali”, quelle che si possono riscontrare attraverso segni, sintomi, esami di laboratorio e strumentali.

La psichiatria, nata come specialità della medicina che si occupa delle patologie mentali, si stava dividendo in due branche, almeno all’apparenza opposte: l’una che seguiva il nuovo modello biomedico, l’altra che procedeva distaccandosene completamente. La branca biomedica della psichiatria vedeva le malattie mentali come conseguenza di alterazioni patologiche delle funzioni del sistema nervoso centrale e quindi curava con farmaci, atti chirurgici, o altri interventi strumentali come l’elettroshock.

Engel, che era internista e psichiatra, annunciava «una crisi di tutta la medicina», a causa della «aderenza ad un modello centrato sulla malattia che non è più adeguato ai compiti scientifici ed alle responsabilità sociali sia della medicina che della psichiatria» (Engel, 1977).

Dichiarava inoltre:

«La crisi della medicina deriva dall’inferenza logica che porta a definire la “malattia” solo in termini di parametri somatici, cosicché i medici non sono tenuti ad occuparsi delle istanze psicosociali in quanto queste ricadrebbero al di fuori della responsabilità e dell’autorità della medicina».

Engel aveva iniziato a interessarsi alla medicina psicosomatica nel 1941, producendo negli anni successivi molti lavori riguardanti la psicosomatica, lo sviluppo psicologico e l’integrazione mente-corpo. Fu solo nel sopraccitato articolo del 1977 che propose alla comunità scientifica e medica un nuovo modello chiamato biopsicosociale, ovvero un approccio che, oltre agli aspetti biologici delle malattie, comprendesse anche quelli psicologico-comportamentali e quelli socio-relazionali.

Il modello biomedico e i suoi limiti

La biomedicina è diventata, nella cultura occidentale, non solo una base per lo studio scientifico della malattia, ma anche la specifica prospettiva culturale del concetto stesso di malattia. Secondo Engel:

«Il modello biomedico è così diventato un imperativo culturale e le sue limitazioni sono state semplicisticamente trascurate. In breve, il modello ora ha acquisito lo status di dogma».

(Engel, 1977)

biomedicinaLa necessità di spiegare in termini scientifici le alterazioni somatiche, comportamentali e sociali dei malati ha portato progressivamente a considerare il corpo completamente distinto dalla mente. Inoltre l’organismo sarebbe una macchina scomponibile in parti isolabili, da cui l’assunto che l’intero possa essere compreso, sia materialmente che concettualmente, ricostruendone le parti costituenti. La mente, insieme ai processi psicologici e sociali, non farebbe parte del campo applicativo della medicina, anche perché non studiabile attraverso il paradigma biomedico.

Le patologie vengono spiegate attraverso alterazioni misurabili di variabili somatiche e sono correlate principalmente a cause fisiche. Viene applicato un principio di causalità lineare e si mira a trovare una causa primaria delle patologie, anche attraverso la scomposizione dell’individuo in parti sempre più piccole (come nella medicina genetica e molecolare) (Baldoni, 2010). In questo modello medico si parla di cause delle malattie, di cofattori e di condizioni predisponenti legati tra loro da relazioni di causa-effetto.

Da questi presupposti è nata la nosografia moderna, che classifica le malattie secondo la sede anatomica o istologica, quindi le alterazioni anatomo-patologiche o biochimiche e la fisiopatologia (Federspil, 1993). La malattia è quindi diventata un’entità discreta, con precisi criteri diagnostici, non definibile in assenza di perturbazioni a livello biochimico o istologico.

Un riduzionismo insensato

Lo sviluppo di conoscenze in questo campo ha portato a un enorme avanzamento nello studio del corpo umano, quindi dell’anatomia, della fisiologia e degli aspetti organici della patogenesi delle malattie, ma ha indirizzato la ricerca medica verso una scomposizione sempre più minuziosa delle varie componenti, formando specialisti sempre più attenti alla singola parte piuttosto che al tutto.

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Halsted R. Holman

 

Questo modello di stampo riduzionista ha consentito quindi importanti progressi in medicina, ma i suoi limiti sono legati sia ad aspetti diagnostico-valutativi che, conseguentemente, ad aspetti terapeutici.

Halsted R. Holman, professore di Medicina presso l’Università di Stanford, ha criticato fortemente il riduzionismo, sottolineandone i limiti e l’inadeguatezza della formazione medica. Citato da Engel (1977), affermava:

«Sebbene il riduzionismo sia uno strumento di comprensione potente, crea anche profondi fraintendimenti quando viene applicato in modo insensato. Il riduzionismo è particolarmente pericoloso quando giunge a negare l’impatto di condizioni non biologiche sui processi biologici. […] Alcuni risultati dei trattamenti medici sono inadeguati, non a causa della mancanza di appropriate tecniche d’intervento, ma perché il nostro modo di pensare è inadeguato».

Genetica e ambiente

Una malattia come il diabete mellito, se è considerata esclusivamente dovuta a deficit relativo di insulina, viene trattata con il reintegro esogeno di questo ormone (ed altri interventi collaterali finalizzati alla stessa funzione), mirando a correggere l’alterazione biochimica di base (la glicemia), considerando il trattamento efficace se questa rientra in limiti prestabiliti e se a lungo termine vengono ridotte le complicanze microvascolari, macrovascolari e neurologiche.

Vi sono anche altri fattori che incidono sulle manifestazioni e sull’evoluzione delle malattie, altrimenti non sarebbe presente la ben nota variabilità individuale. Su quest’ultimo aspetto la biomedicina si concendnatra su variabili genetiche e ambientali, talvolta non ben definite, quindi poco utilizzabili al di fuori di considerazioni statistiche.

Per poter studiare il peso dell’ambiente e della genetica su una determinata patologia, vengono spesso prese in considerazione coppie di gemelli omozigoti. Barnett, Eff, Leslie, e Pyke, per esempio, nel 1981 hanno studiato 200 coppie di gemelli identici, identificando una forte concordanza nello sviluppo del diabete mellito tipo 2 (praticamente del 100% nell’arco della vita), attribuendogli così una forte predisposizione genetica (Barnett et al., 1981). In studi come questo viene supposto che da uno stesso DNA debba esserci la medesima predisposizione alla malattia, quindi il fatto di svilupparla o meno, deve necessariamente essere determinato dall’ambiente. Secondo i dati dello studio sopraccitato, nel caso del diabete mellito tipo 2 (DM2), l’ambiente avrebbe un peso solo sull’età di comparsa delle alterazioni legate alla malattia, perché se un gemello risultava portatore di diabete, anche l’altro prima o poi lo avrebbe sviluppato. Se ne concludeva che la predisposizione genetica era molto forte.

Secondo questo modo di interpretare la patogenesi delle malattie, esistono quindi fattori genetici predisponenti, ai quali viene dato forte risalto rispetto a tutto il resto che viene genericamente definito “ambiente”. Sotto il cappello “ambiente” compaiono il contesto sociale e culturale, lo stile di vita, e tutto un insieme di fattori intrinseci all’esistenza della persona come per esempio i traumi psicologici. Quando viene proposta la correlazione tra questi singoli fattori e l’incidenza di una malattia, si parla di patogenesi multifattoriale, ampliando da un lato la prospettiva, ma restando fermamente legati ad un approccio riduzionista e determinista. Non vengono in genere considerati fattori più strettamente psicologici, come la personalità, il comportamento di malattia e i disturbi mentali. Tutti elementi che vengono confinati a studi in ambito psicologico o psichiatrico.

Dal punto di vista terapeutico, i fattori ambientali, ad eccezione dello stile di vita, non vengono generalmente presi in considerazione e acquisiscono di conseguenza una sembianza di immodificabilità. Si punta piuttosto a «studiare le basi molecolari delle alterazioni precoci, e sviluppare terapie mirate contro di esse» (Leahy, 2005), giusto per citare uno dei tanti articoli scientifici che si rifanno strettamente al modello biomedico.

Predisposizione genetica o regolazione genetica?

uomo dnaAd oltre 30 anni dallo studio di Barnett, l’avanzamento delle tecniche e delle conoscenze nel campo della genetica molecolare ha consentito di riconoscere l’enorme numero di geni (e dei loro prodotti) che interagiscono nella regolazione del metabolismo (in generale, e più nello specifico di quello glucidico), suggerendo una predisposizione genetica molto complessa per il DM2 (Siddiqui et al., 2013), e allo stesso tempo un difficile, se non impossibile (almeno per ora) calcolo a priori del suo peso reale nello sviluppo della malattia.

Oggi sappiamo che il DNA non è un contenitore di informazioni rigido come una lastra da stampa che determina copie di un libro sempre uguali, ma è un sistema di informazioni plastico, la cui espressione può essere regolata diversamente tra gli individui e nello stesso individuo, attraverso processi epigenetici. Questo con le dovute riserve verso casi con effettive mutazioni grossolane della catena, causa di ben note patologie genetiche. Anche in queste ultime, però, le manifestazioni della patologia e la sua evoluzione possono essere molto differenti tra diversi individui affetti. Il DNA è sicuramente un forte fattore nella determinazione di ciò che siamo e ciò che diventeremo, ma invece di ritenerlo il risultato di una copia stampata, potremmo considerare che questo libro, letto ed interpretato da ciascuno di noi, acquisisce una peculiare espressione, in grado anche di mutare nel tempo.

Fattori biologici, psicologici e sociali in salute e malattia

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The BioPsychoSocial model
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Il modello BioPsicoSociale

La condizione di malattia non è caratterizzata solamente da valterazioni somatiche. Sono presenti anche aspetti psicologici legati ai sintomi, al ruolo di malato, alla medicalizzazione della vita, così come modificazioni nelle relazioni sociali, nella capacità di lavorare e nell’autonomia. Questi fattori possono a loro volta incidere su evoluzione e prognosi della patologia, attraverso l’interpretazione del problema e le strategie di coping peculiari di ciascun individuo.

Fattori biologici, psicologici e sociali interessano continuamente e in maniera complessa ognuno di noi. Questo avviene in uno stato di salute e completo benessere, e allo stesso modo anche in caso di malattia.

Lo stato di salute dell’individuo, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale (WHO, 1948), visione che si inserisce appieno in un approccio biopsicosociale (in realtà questa definizione ha preceduto il modello proposto da Engel, facendo parte della Costituzione dell’OMS del 1948). La promozione della salute, quindi, non può fermarsi agli aspetti fisici, ma richiede anche una valutazione di quelli sociali e mentali, i quali, come schematizzato in figura, interagiscono tra loro in maniera complessa.

Il modello BioPsicoSocialeSpirituale per un Benessere Globale

Una definizione ancora più ampia (e decisamente più recente) viene dal rapporto 2010 della “Commissione Salute” dell’Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute, che definisce la Salute:

«lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di benessere, che consente alle persone di raggiungere e mantenere il proprio potenziale personale nella società».

BioPsychoSocialSpiritual model for a Whole Wellness
BioPsychoSocialSpiritual model for a Whole Wellness
Modello BioPsicoSocioSpirituale per un Benessere Globale
Modello BioPsicoSocioSpirituale per un Benessere Globale

Si può parlare quindi di un modello BioPsicoSocioSpirituale. Questo apre ad una visione olistica della persona, in salute e in malattia, che tratterò in un prossimo articolo. Non si parla più di “salute”, ma di “benessere globale”, perché quest’ultimo non è solo l’assenza di malattia, ma un concetto che richiama a qualcosa che possiamo sempre migliorare.

Esperienze precoci

Variabili psicologiche e sociali interessano l’individuo sin dall’infanzia, a partire dalla sua prima relazione, quella con la madre, considerata la più importante nello sviluppo.

famigliaLa relazione madre-bambino è in grado di influenzare i futuri comportamenti della persona, quindi anche i suoi rapporti interpersonali e sociali. Questo forte legame inizia già durante la gravidanza, e per certi aspetti sin dal concepimento (Baldoni, 2010; Engel, 1962). C’è un ovvio rapporto biologico tra i due e questo già di per sé è una relazione, che inizia con segnali puramente umorali, ma poi si intensifica con lo sviluppo degli organi sensoriali e motori del feto. La voce e i movimenti materni, come le variazioni nelle concentrazioni ematiche di fattori neuro-ormonali, inviano segnali al concepito, il quale può manifestare la sua presenza in seguito allo sviluppo del sistema motorio. Così i movimenti intrauterini del feto possono scatenare intense reazioni emotive nella madre, con risposte che egli progressivamente può percepire. Se da un lato l’apparato psichico fetale è sicuramente ancora poco sviluppato, dall’altro è in piena maturazione, e questa può essere influenzata dalla relazione con la madre.

Studi sull’attaccamento familiare hanno dimostrato anche un’importante influenza del padre sulla relazione madre-bambino e lo sviluppo psicosomatico del figlio sin dal momento del concepimento (Baldoni e Ceccarelli, 2010).

Considerare quindi il momento del parto come il “punto zero” della vita, rappresenta una limitazione alla comprensione dello sviluppo psicosomatico dell’individuo. Gemelli separati alla nascita hanno condiviso, oltre che il patrimonio genetico, almeno la vita intrauterina e la concomitante relazione con la madre. Gemelli rimasti nella famiglia di origine per tutta l’infanzia sono ancora più legati da fattori psicosociali e relazionali, considerando inoltre che hanno vissuto le stesse situazioni negli stessi momenti dello sviluppo, cosa che non accade per esempio in fratelli di età diverse.


Vedi anche in questo sito:

La psicosomatica

La PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI)


Bibliografia

Baldoni, F. (2010). La prospettiva psicosomatica. Bologna: Il Mulino.

Baldoni, F., e Ceccarelli, L. (2010). La depressione perinatale paterna. Una rassegna della ricerca clinica ed empirica. Infanzia e adolescenza, 9(2), 79–92.

Barnett, A. H., Eff, C., Leslie, R. D., e Pyke, D. A. (1981). Diabetes in identical twins. A study of 200 pairs. Diabetologia, 20(2), 87–93.

Engel, G. L. (1962). Medicina psicosomatica e sviluppo psicologico (trad. it.). Bologna: Nuova casa editrice L. Cappelli spa, 1981.

Engel, G. L. (1977). The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science, 196(4286), 129–136.

Federspil, G. (1993). Voce «Nosografia» – Enciclopedia Italiana – V appendice (1993). Treccani.

Leahy, J. L. (2005). Pathogenesis of type 2 diabetes mellitus. Archives of medical research, 36(3), 197–209.

Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute – Rapporto 2010 della “Commissione Salute”.

Siddiqui, A. A., Siddiqui, S. A., Ahmad, S., Siddiqui, S., Ahsan, I., e Sahu, K. (2013). Diabetes: Mechanism, Pathophysiology and Management – A review. Int. J. Drug Dev. & Res., 5(2), 1–23.

WHO. (1948). Preamble to the Constitution of the World Health Organization as adopted by the International Health Conference, New York, 19-22 June, 1946; signed on 22 July 1946 by the representatives of 61 States and entered into force on 7 April 1948. New York.

Vivere meglio è prevenire

prevenzioneE’ possibile prevenire le malattie? Sono davvero scritte nel nostro codice genetico? 

Sempre più spesso si parla di predisposizione genetica alle malattie. Addirittura esistono test genetici che indicano quali potrebbero essere le patologie cui andremo incontro più probabilmente nella vita.

Molte condizioni vengono definite “malattie predisposte geneticamente”, ovvero stati patologici che si manifestano solo da un certo punto della vita in poi, come ad esempio il diabete mellito, i tumori e le malattie cardiovascolari. E’ riconosciuto che tali manifestazioni si presentano solo in compresenza di altri fattori (es. un certo stile di vita, la dieta, altre patologie, ecc.). Su questi ultimi abbiamo la possibilità di agire in modo consapevole.

Il codice genetico (DNA) non è così rigido come si pensa, ma è sottoposto a continue regolazioni (funzione epigenetica), che dipendono da svariati fattori legati alla nostra vita. Quindi anche una predisposizione genetica può essere mantenuta silente e perdere il suo significato.

Il primo principio è senza dubbio quello di una vita sana, equilibrata, dinamica, il più possibile gioiosa e giocosa. E’ ben dimostrato che tutto questo contribuisce a un’adeguata regolazione del sistema neuroendocrino, del sistema immunitario e, ovviamente, del nostro equilibrio psichico. Questo significa puntare al “Benessere Globale“, concetto che approfondirò in altre pagine di questo sito.

Per capire se ti trovi su questa strada puoi chiederti:

  1. Reputo la mia vita “sana” in generale?
  2. Ho qualche fattore di squilibrio (alimentazione, sedentarietà, comportamenti rischiosi, utilizzo di sostanze, ecc.)?
  3. Mi muovo fisicamente abbastanza e in modo piacevole?
  4. Mi sento gioioso per la maggior parte del mio tempo? Ho voglia di giocare, scherzare, divertirmi?
  5. Coltivo relazioni importanti e le mantengo nel tempo?
  6. Ascolto i miei bisogni fisici e psichici? Mi concedo adeguati riposo, rilassamento ed espressione?

Insomma, cercare di vivere in ascolto di noi stessi, puntando alla vera felicità, è la miglior prevenzione!

Leggi la continuazione: Perché non attuiamo comportamenti preventivi?