Le origini
George Libman Engel (1913-1999), professore di psichiatria e medicina per oltre 50 anni presso l’Università di Rochester (New York), nel 1977 richiamava, in un articolo apparso sulla rivista «Science», alla necessità di un nuovo modello medico (Engel, 1977). L’approccio biomedico, forte delle grandi scoperte e delle conseguenti innovazioni diagnostiche e terapeutiche del XX secolo, si stava concentrando sul corpo del paziente, lasciando volontariamente problemi e bisogni di tipo psicologico e sociale allo studio e alla cura di altre discipline.
Il medico, secondo questo approccio, doveva concentrarsi sulle malattie “reali”, quelle che si possono riscontrare attraverso segni, sintomi, esami di laboratorio e strumentali.
La psichiatria, nata come specialità della medicina che si occupa delle patologie mentali, si stava dividendo in due branche, almeno all’apparenza opposte: l’una che seguiva il nuovo modello biomedico, l’altra che procedeva distaccandosene completamente. La branca biomedica della psichiatria vedeva le malattie mentali come conseguenza di alterazioni patologiche delle funzioni del sistema nervoso centrale e quindi curava con farmaci, atti chirurgici, o altri interventi strumentali come l’elettroshock.
Engel, che era internista e psichiatra, annunciava «una crisi di tutta la medicina», a causa della «aderenza ad un modello centrato sulla malattia che non è più adeguato ai compiti scientifici ed alle responsabilità sociali sia della medicina che della psichiatria» (Engel, 1977).
Dichiarava inoltre:
«La crisi della medicina deriva dall’inferenza logica che porta a definire la “malattia” solo in termini di parametri somatici, cosicché i medici non sono tenuti ad occuparsi delle istanze psicosociali in quanto queste ricadrebbero al di fuori della responsabilità e dell’autorità della medicina».
Engel aveva iniziato a interessarsi alla medicina psicosomatica nel 1941, producendo negli anni successivi molti lavori riguardanti la psicosomatica, lo sviluppo psicologico e l’integrazione mente-corpo. Fu solo nel sopraccitato articolo del 1977 che propose alla comunità scientifica e medica un nuovo modello chiamato biopsicosociale, ovvero un approccio che, oltre agli aspetti biologici delle malattie, comprendesse anche quelli psicologico-comportamentali e quelli socio-relazionali.
Il modello biomedico e i suoi limiti
La biomedicina è diventata, nella cultura occidentale, non solo una base per lo studio scientifico della malattia, ma anche la specifica prospettiva culturale del concetto stesso di malattia. Secondo Engel:
«Il modello biomedico è così diventato un imperativo culturale e le sue limitazioni sono state semplicisticamente trascurate. In breve, il modello ora ha acquisito lo status di dogma».
(Engel, 1977)
La necessità di spiegare in termini scientifici le alterazioni somatiche, comportamentali e sociali dei malati ha portato progressivamente a considerare il corpo completamente distinto dalla mente. Inoltre l’organismo sarebbe una macchina scomponibile in parti isolabili, da cui l’assunto che l’intero possa essere compreso, sia materialmente che concettualmente, ricostruendone le parti costituenti. La mente, insieme ai processi psicologici e sociali, non farebbe parte del campo applicativo della medicina, anche perché non studiabile attraverso il paradigma biomedico.
Le patologie vengono spiegate attraverso alterazioni misurabili di variabili somatiche e sono correlate principalmente a cause fisiche. Viene applicato un principio di causalità lineare e si mira a trovare una causa primaria delle patologie, anche attraverso la scomposizione dell’individuo in parti sempre più piccole (come nella medicina genetica e molecolare) (Baldoni, 2010). In questo modello medico si parla di cause delle malattie, di cofattori e di condizioni predisponenti legati tra loro da relazioni di causa-effetto.
Da questi presupposti è nata la nosografia moderna, che classifica le malattie secondo la sede anatomica o istologica, quindi le alterazioni anatomo-patologiche o biochimiche e la fisiopatologia (Federspil, 1993). La malattia è quindi diventata un’entità discreta, con precisi criteri diagnostici, non definibile in assenza di perturbazioni a livello biochimico o istologico.
Un riduzionismo insensato
Lo sviluppo di conoscenze in questo campo ha portato a un enorme avanzamento nello studio del corpo umano, quindi dell’anatomia, della fisiologia e degli aspetti organici della patogenesi delle malattie, ma ha indirizzato la ricerca medica verso una scomposizione sempre più minuziosa delle varie componenti, formando specialisti sempre più attenti alla singola parte piuttosto che al tutto.
Questo modello di stampo riduzionista ha consentito quindi importanti progressi in medicina, ma i suoi limiti sono legati sia ad aspetti diagnostico-valutativi che, conseguentemente, ad aspetti terapeutici.
Halsted R. Holman, professore di Medicina presso l’Università di Stanford, ha criticato fortemente il riduzionismo, sottolineandone i limiti e l’inadeguatezza della formazione medica. Citato da Engel (1977), affermava:
«Sebbene il riduzionismo sia uno strumento di comprensione potente, crea anche profondi fraintendimenti quando viene applicato in modo insensato. Il riduzionismo è particolarmente pericoloso quando giunge a negare l’impatto di condizioni non biologiche sui processi biologici. […] Alcuni risultati dei trattamenti medici sono inadeguati, non a causa della mancanza di appropriate tecniche d’intervento, ma perché il nostro modo di pensare è inadeguato».
Genetica e ambiente
Una malattia come il diabete mellito, se è considerata esclusivamente dovuta a deficit relativo di insulina, viene trattata con il reintegro esogeno di questo ormone (ed altri interventi collaterali finalizzati alla stessa funzione), mirando a correggere l’alterazione biochimica di base (la glicemia), considerando il trattamento efficace se questa rientra in limiti prestabiliti e se a lungo termine vengono ridotte le complicanze microvascolari, macrovascolari e neurologiche.
Vi sono anche altri fattori che incidono sulle manifestazioni e sull’evoluzione delle malattie, altrimenti non sarebbe presente la ben nota variabilità individuale. Su quest’ultimo aspetto la biomedicina si concentra su variabili genetiche e ambientali, talvolta non ben definite, quindi poco utilizzabili al di fuori di considerazioni statistiche.
Per poter studiare il peso dell’ambiente e della genetica su una determinata patologia, vengono spesso prese in considerazione coppie di gemelli omozigoti. Barnett, Eff, Leslie, e Pyke, per esempio, nel 1981 hanno studiato 200 coppie di gemelli identici, identificando una forte concordanza nello sviluppo del diabete mellito tipo 2 (praticamente del 100% nell’arco della vita), attribuendogli così una forte predisposizione genetica (Barnett et al., 1981). In studi come questo viene supposto che da uno stesso DNA debba esserci la medesima predisposizione alla malattia, quindi il fatto di svilupparla o meno, deve necessariamente essere determinato dall’ambiente. Secondo i dati dello studio sopraccitato, nel caso del diabete mellito tipo 2 (DM2), l’ambiente avrebbe un peso solo sull’età di comparsa delle alterazioni legate alla malattia, perché se un gemello risultava portatore di diabete, anche l’altro prima o poi lo avrebbe sviluppato. Se ne concludeva che la predisposizione genetica era molto forte.
Secondo questo modo di interpretare la patogenesi delle malattie, esistono quindi fattori genetici predisponenti, ai quali viene dato forte risalto rispetto a tutto il resto che viene genericamente definito “ambiente”. Sotto il cappello “ambiente” compaiono il contesto sociale e culturale, lo stile di vita, e tutto un insieme di fattori intrinseci all’esistenza della persona come per esempio i traumi psicologici. Quando viene proposta la correlazione tra questi singoli fattori e l’incidenza di una malattia, si parla di patogenesi multifattoriale, ampliando da un lato la prospettiva, ma restando fermamente legati ad un approccio riduzionista e determinista. Non vengono in genere considerati fattori più strettamente psicologici, come la personalità, il comportamento di malattia e i disturbi mentali. Tutti elementi che vengono confinati a studi in ambito psicologico o psichiatrico.
Dal punto di vista terapeutico, i fattori ambientali, ad eccezione dello stile di vita, non vengono generalmente presi in considerazione e acquisiscono di conseguenza una sembianza di immodificabilità. Si punta piuttosto a «studiare le basi molecolari delle alterazioni precoci, e sviluppare terapie mirate contro di esse» (Leahy, 2005), giusto per citare uno dei tanti articoli scientifici che si rifanno strettamente al modello biomedico.
Predisposizione genetica o regolazione genetica?
Ad oltre 30 anni dallo studio di Barnett, l’avanzamento delle tecniche e delle conoscenze nel campo della genetica molecolare ha consentito di riconoscere l’enorme numero di geni (e dei loro prodotti) che interagiscono nella regolazione del metabolismo (in generale, e più nello specifico di quello glucidico), suggerendo una predisposizione genetica molto complessa per il DM2 (Siddiqui et al., 2013), e allo stesso tempo un difficile, se non impossibile (almeno per ora) calcolo a priori del suo peso reale nello sviluppo della malattia.
Oggi sappiamo che il DNA non è un contenitore di informazioni rigido come una lastra da stampa che determina copie di un libro sempre uguali, ma è un sistema di informazioni plastico, la cui espressione può essere regolata diversamente tra gli individui e nello stesso individuo, attraverso processi epigenetici. Questo con le dovute riserve verso casi con effettive mutazioni grossolane della catena, causa di ben note patologie genetiche. Anche in queste ultime, però, le manifestazioni della patologia e la sua evoluzione possono essere molto differenti tra diversi individui affetti. Il DNA è sicuramente un forte fattore nella determinazione di ciò che siamo e ciò che diventeremo, ma invece di ritenerlo il risultato di una copia stampata, potremmo considerare che questo libro, letto ed interpretato da ciascuno di noi, acquisisce una peculiare espressione, in grado anche di mutare nel tempo.
Fattori biologici, psicologici e sociali in salute e malattia
La condizione di malattia non è caratterizzata solamente da valterazioni somatiche. Sono presenti anche aspetti psicologici legati ai sintomi, al ruolo di malato, alla medicalizzazione della vita, così come modificazioni nelle relazioni sociali, nella capacità di lavorare e nell’autonomia. Questi fattori possono a loro volta incidere su evoluzione e prognosi della patologia, attraverso l’interpretazione del problema e le strategie di coping peculiari di ciascun individuo.
Fattori biologici, psicologici e sociali interessano continuamente e in maniera complessa ognuno di noi. Questo avviene in uno stato di salute e completo benessere, e allo stesso modo anche in caso di malattia.
Lo stato di salute dell’individuo, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), è uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale (WHO, 1948), visione che si inserisce appieno in un approccio biopsicosociale (in realtà questa definizione ha preceduto il modello proposto da Engel, facendo parte della Costituzione dell’OMS del 1948). La promozione della salute, quindi, non può fermarsi agli aspetti fisici, ma richiede anche una valutazione di quelli sociali e mentali, i quali, come schematizzato in figura, interagiscono tra loro in maniera complessa.
Il modello BioPsicoSocialeSpirituale per un Benessere Globale
Una definizione ancora più ampia (e decisamente più recente) viene dal rapporto 2010 della “Commissione Salute” dell’Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute, che definisce la Salute:
«lo stato emotivo, mentale, fisico, sociale e spirituale di benessere, che consente alle persone di raggiungere e mantenere il proprio potenziale personale nella società».
Si può parlare quindi di un modello BioPsicoSocioSpirituale. Questo apre ad una visione olistica della persona, in salute e in malattia, che tratterò in un prossimo articolo. Non si parla più di “salute”, ma di “benessere globale”, perché quest’ultimo non è solo l’assenza di malattia, ma un concetto che richiama a qualcosa che possiamo sempre migliorare.
Esperienze precoci
Variabili psicologiche e sociali interessano l’individuo sin dall’infanzia, a partire dalla sua prima relazione, quella con la madre, considerata la più importante nello sviluppo.
La relazione madre-bambino è in grado di influenzare i futuri comportamenti della persona, quindi anche i suoi rapporti interpersonali e sociali. Questo forte legame inizia già durante la gravidanza, e per certi aspetti sin dal concepimento (Baldoni, 2010; Engel, 1962). C’è un ovvio rapporto biologico tra i due e questo già di per sé è una relazione, che inizia con segnali puramente umorali, ma poi si intensifica con lo sviluppo degli organi sensoriali e motori del feto. La voce e i movimenti materni, come le variazioni nelle concentrazioni ematiche di fattori neuro-ormonali, inviano segnali al concepito, il quale può manifestare la sua presenza in seguito allo sviluppo del sistema motorio. Così i movimenti intrauterini del feto possono scatenare intense reazioni emotive nella madre, con risposte che egli progressivamente può percepire. Se da un lato l’apparato psichico fetale è sicuramente ancora poco sviluppato, dall’altro è in piena maturazione, e questa può essere influenzata dalla relazione con la madre.
Studi sull’attaccamento familiare hanno dimostrato anche un’importante influenza del padre sulla relazione madre-bambino e lo sviluppo psicosomatico del figlio sin dal momento del concepimento (Baldoni e Ceccarelli, 2010).
Considerare quindi il momento del parto come il “punto zero” della vita, rappresenta una limitazione alla comprensione dello sviluppo psicosomatico dell’individuo. Gemelli separati alla nascita hanno condiviso, oltre che il patrimonio genetico, almeno la vita intrauterina e la concomitante relazione con la madre. Gemelli rimasti nella famiglia di origine per tutta l’infanzia sono ancora più legati da fattori psicosociali e relazionali, considerando inoltre che hanno vissuto le stesse situazioni negli stessi momenti dello sviluppo, cosa che non accade per esempio in fratelli di età diverse.
Vedi anche in questo sito:
La PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI)
Bibliografia
Baldoni, F. (2010). La prospettiva psicosomatica. Bologna: Il Mulino.
Baldoni, F., e Ceccarelli, L. (2010). La depressione perinatale paterna. Una rassegna della ricerca clinica ed empirica. Infanzia e adolescenza, 9(2), 79–92.
Barnett, A. H., Eff, C., Leslie, R. D., e Pyke, D. A. (1981). Diabetes in identical twins. A study of 200 pairs. Diabetologia, 20(2), 87–93.
Engel, G. L. (1962). Medicina psicosomatica e sviluppo psicologico (trad. it.). Bologna: Nuova casa editrice L. Cappelli spa, 1981.
Engel, G. L. (1977). The Need for a New Medical Model: A Challenge for Biomedicine. Science, 196(4286), 129–136.
Federspil, G. (1993). Voce «Nosografia» – Enciclopedia Italiana – V appendice (1993). Treccani.
Leahy, J. L. (2005). Pathogenesis of type 2 diabetes mellitus. Archives of medical research, 36(3), 197–209.
Osservatorio Europeo su Sistemi e Politiche per la Salute – Rapporto 2010 della “Commissione Salute”.
Siddiqui, A. A., Siddiqui, S. A., Ahmad, S., Siddiqui, S., Ahsan, I., e Sahu, K. (2013). Diabetes: Mechanism, Pathophysiology and Management – A review. Int. J. Drug Dev. & Res., 5(2), 1–23.
WHO. (1948). Preamble to the Constitution of the World Health Organization as adopted by the International Health Conference, New York, 19-22 June, 1946; signed on 22 July 1946 by the representatives of 61 States and entered into force on 7 April 1948. New York.